In curva con panini e Guerin

In curva con panini e Guerin In curva con panini e Guerin di RENATO NICOLINI Andando a scuola dai Christian Brothers, «gesuiti dei poveri» irlandesi, di via Marcantonio Colonna, era naturale che la domenica mattina, dopo la messa, si giocasse a calcio. I campo però non era (a differenza della cappella) nell'edificio della scuola. Era il campo dei Cavalieri di Colombo, a valle Giulia. Il direi tore del campo era l'insegnante di matematica delle medie, il professor De Canzi, con qualche inevitabile confusione circa il suo ruolo nella scuola. Le partite erano riservate agli alunni delle medie, cosi, terminate le elementari, la prima domenica della mia prima media, mi ritrovai in fila con gli altri sul campo dei Cavalieri di Colombo, per essere scelto da uno dei due capitani. Con mio progressivo dispiacere, non venni scelto da nessuno. Il calcio però mi appassionava, e cosi seguii lo stesso la partita, dai bordi del campo, correndo anch'io appresso alla palla, e incitando la squa dra che avevo scelto (e che mi aveva rifiutato). Seguitavo la domenica mattina a recarmi al campo dei Cavalieri di Colombo, a mettermi in fila, e a non venire scelto. Una domenica mattina (si giocava in nove contro nove) eravamo presenti soltanto in diciotto, cosi fui scelto anch'io. Per il mio esordio, fui schierato in porta, ruolo che evidentemente era ritenuto meno attivo degli altri, adatto ad un esordiente inesperto. Dopo qualche minuto, vedo arrivare verso di me la prima palla. Mi avvicino, la sfioro, e quella finisce alle mie spalle. Dopo dieci minuti, i goal che avevo subito erano già quattro, senza che fossi riuscito una sola volta a toccare il pallone. Finii la partita fuori dai pali, in un ruolo indefinito. Seguivo la palla, come ero abituato a fare dai bordi del campo, senza raggiungerla mai. Ai calci d'angolo avanzavo, mi mettevo al palo opposto a quello in cui si piazzava il portiere avversario, nella corretta posizione che avevo appreso dai giornali sportivi e da un manuale che avevo acquistato, in attesa di un traversone che nessuno pensava ad indirizzare dalle mie parti. Finii cosi per rassegnarmi, nelle domeniche successive, al ruolo di tifoso, e ad apprendere le intemperanze verbali, correndo su e giù a seconda dei movimenti di una palla (lo avevo ormai appreso) per me irraggiungibile. Allo stadio ci andai la prima volta che avrò avuto tredici anni, ma non per vedere la Roma o la Lazio. Gonario, l'ex carabiniere che aveva sposato Giovanna, la nostra ex domestica (e che mi aveva, mi dicevano e un po' mi ricordavo, salvato la vita una volta che ero scivolato nella vasca da bagno), mi condusse ad uno spareggio (per la promozione in serie C?) in cui era impegnato il Colleferro. La partita si svolgeva allo Stadio Flaminio. Ricordo che Gonario aveva portato per me un panino con la carne e la verdura, che restò nella mia mente, per molto tempo, come il menù ideale dello spettatore di una partita di calcio. Il tifo lo facevamo per il Colleferro ma alla distanza venne fuori la squadra avversaria. Cosi appresi, senza troppo dolore, poiché il mio tifo per il Colleferro non era troppo acceso, la strada delle delusioni dello spettatore. Troppe altre volte l'avrei dovuta percorrere. Ricordo — anni dopo — la partita Roma-Verona, all'Olimpico, dopo la vittoria in trasferta sul campo del Cagliari e la morte successiva, negli spogliatoi, di Taccola. In attesa della partita (mi ero recato per tempo in curva Sud per trovare un buon posto) parlavo con un tifoso che la domenica precedente si era recato a Cagliari, che aveva visto Taccola... Mi sembrava una condizione epica quella di tifoso che seguiva la strada in trasferta. Al posto di Taccola esordiva Landini, che toccava la palla con qualche goffaggine ma con alcuni scatti imprevedibili. Poi in contropiede segnò il Verona, una volta, due volte. E le bandiere dei club Taccola vennero ammainate, per rispuntare dopo un goal di Peiró, in un finale entusiasmante, la Roma all'attacco, ma inutile per il risultato. La partita che mi rese più popolare la vidi per televisione. I mondiali messicani dei 1970 mi sorpresero militare. Dopo due mesi alla Cecchignola come allievo ufficiale, alcune informazioni in ritardo dei carabinieri (suppongo), indussero il Comando della scuola a riconoscere in me una scarsa attitudine militare, ed a trasferirmi, nel giro di ventiquattr'ore, al Battaglione genio pionieri «Legnano» I mondiali vennero a coincidere con il precampo estivo, a Bercelo, vicino Parma. Prima di partire per Bercelo, avevo commesso l'errore di lasciare il mio portafogli nella tuta mimetica il giorno delle docce. Cosi al mio ritorno non lo ritrovai. E cosi venni, altrettanto naturalmente, adottato dalla mia compagnia (compagni da cui mi divideva una certa differenza di età, erano tutti di quasi dieci anni più giovani di me). A turno mi invitavano a pranzo, e debbo dire che raramente mi sono sentito cosi ricco come in quel periodo in cui, fino all'arrivo di un vaglia da casa, non avevo una lira. Con Solinas, Favi, Gelati (che giocava centromediano nel Parma e faceva «l'ortlan», vendeva verdure), ci si vedeva più spesso che con gli altri, e con loro cominciai, un po' per gioco, a scommettere sulle vittorie della squadra italiana, nonostante il deludente avvio, le vittorie di misura, i pareggi zero a zero. Venne la vittoria sul Messico, ed alla vigilia della semifinale con la Germania mi lasciai andare ad un pronostico: «L'Italia vince per uno a zero. Un goal; e poi la nostra difesa blocca i tedeschi». La partita pareva darmi ragione, fino al pareggio tedesco, al goal di Schnellinger al novantesimo minuto. «Non c'è problema. Ho sbagliato sul punteggio, ma non sullo scarto. Nel tempi supplementari veniamo fuori noi». Sul tre a due a favóre della Germania restavo il solo a credere, con ostentata sicurezza, nella vittoria italiana. Peccato che il gioco non mi sia riuscito una seconda volta, nella finale con il Brasile. Ma chi avrebbe immaginato che i terzini brasiliani, che mi erano sembrati cosi incerti nelle altre partite, avrebbero saputo bloccare con tanta sicurezza Riva e Boninsegna? Essendo nato nel 1942, l'anno dello scudetto, ero destinato a diventare tifoso della Roma. Lo divenni però tardi, dopo anni di tiepide simpatie... laziali, innamoramenti per la Fiorentina dell'anno dello scudetto, imbattuta sino all'ultima giornata, e soprattutto per l'Inter europea di Herrera. Con Herrera allenatore della Roma, decisi di diventare tifoso e di frequentare lo stadio. La domenica andavo all'apertura dei cancelli, per trovare un buon posto in curva Sud, con panini, giornali sportivi, compreso il «Guerin sportivo» uscito il lunedi prima, fumetti, libri gialli, di fantascienza... Per ingannare il tempo poi era molto raro che leggessi. Preferivo osservare la folla dello stadio, i suoi rituali complicati, lo schieramento dei club giallorossi (e avversari; soprattutto quando veniva il Napoli), gli striscioni, gli slogan, fino all'arrivo di Dante, pochi secondi prima dei fischio d'inizio, il capotifoso della curva Sud, accolto dal grido di «Daniel Dantel», che assumeva la direzione del tifo, dava il via ai gridi forse più con le braccia che con la voce. Senza abbandonare il tifo giallorosso, smisi perciò, progressivamente, di recarmi allo stadio, preferendo alla visione diretta della partita la lettura dei giornali del lunedi, dove il gioco della Roma — attraverso le osservazioni del «mago» — appariva sempre moderno, razionale, in sviluppo, battuto soltanto dalla sfortuna. Poi anche questo gioco fini per venirmi a noia, e mi ritrovai un po' per volta ridotto alla condizione laica di tifoso intermittente, disposto sempre a gioire delle vittorie della sua squadra ma non più tanto a soffrirne... Questo rapporto di delusione tra tifoso e squadra, che portava a guardare con preventiva rassegnazióne le partite appena un po' impegnative, credo non fosse soltanto mio ma di tutta la città. Dopo le prime cinque giornate si guardava già all'anno dopo, all'avvento tanto immancabile quanto sempre rinviato di una grande Roma. «Forza Roma, forza lupi, so finiti i tempi cupi». E invece i tempi diventavano sempre più cupi, fino alla morte di Vincenzo Paparelli, ucciso durante un derby Roma-Lazio da un razzo proveniente proprio dalla curva SudCosi questa Roma di statura sicuramente italiana (e forse europea) di Liedholm e Falcao mi è arrivata addosso inattesa. Petroselli no, ci aveva creduto subito, ben altra tempra di tifoso da me come era. L'anno scorso aveva trovato il tempo di recarsi a Torino, mi pare fosse la penultima di campionato, per Juventus-Roma. Fini zero a zero, e con quel risultato anche le speranze di scudetto. Petroselli, tranquillo (apparentemente) diceva: «Sarà per l'anno prossimo». Poi lo ricordo davanti al televisore, nel suo studio di sindaco, per la finale di Coppa Italia tra Torino e Roma. Al goal del Torino accusò il colpo: «Vuoi vedere che la jella...». A me pare che di questa Roma diversa un po' di merito vada anche ad una città diversa, non meno appassionata ma più composta nelle sue manifestazioni di tifo, forse una città in cui si avverte l'inizio di una vita più ricca, contraddittoria, complessa per esaurirla — sia pure simbolicamente — nel giro di novanta minuti. Molto merito naturalmente a Liedholm, che ci dimostra come anche nel calcio l'audacia teorica, la capacità di sperimentare schemi diversi (la difesa «a zona.),e di mantenérli, anche quando i risultati non siano immediatamente soddisfacenti, e la professionalità siano vincenti. Certo, non tutto è cultura allo stesso modo, ma non esiste nulla che sia indifferente per la cultura. Cosi un calcio moderno, l'intelligenza piuttosto che il mito, la preparazione piuttosto che l'improvvisazione, contribuiscono. Caro Gianni Brera, caro Arbasino (per me secondo solo a Brera tra gli scrittori italiani): che Roma non sia più la capitale dello scirocco? Da «Il calcio è una scienza da amare» di Walter Veltroni. Per gentile concessione di Savelli editori. ;