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ts r ts r LOCKHEED Era meglio ricorrere a un giudice ordinario Si ROMA — La sentenza, sul caso Lockheed, può essere guardata sotto molteplici profili: storici, politici, giurìdici. Particolarmente abbondanti questi ultimi, che chiamano in causa il diritto penale sostanziale non meno che il diritto processuale penale, il diritto costituzionale non meno che il diritto internazionale. Un giudizio assolutamente senza precedenti, solenne e clamoroso quant'altri mai, non può non trasformarsi in un'oggetto di analisi spietata, diretta ad evidenziarne i difetti più ancora che i pregi.' Nulla come una esperienza intensamente vissuta si rivela fonte di preziosi insegnamenti. L'insegnamento più prezioso sembra questo: si tratta di un'esperienza da non ripetere né nelle forme né nei modi voluti dalle norme vigenti, a cominciare da quelle costituzionali. Una conclusione così brusca può apparire paradossale, di fronte all'innegabile importanza storica della vicenda giudiziaria appena conclusa, ai suoi profondi risvolti politici e morali, alla lezione di fermezza che ne è provenuta, al colpo finalmente arrecato al mito che voleva sempre impunite le corruttele di vertice. Ma c'è una domanda non eludibile: lo stesso risultato non sarebbe stato ugualmente, e meno drammaticamente, raggiunto se a procedere fosse stata l'autorità giudiziaria ordinaria? Se non fosse esistita la riserva di giurisdizione alla Corte Costituzionale e l'affidamento della messa in stato d'accusa al Parlamento, una semplice autorizzazione a procedere da parte della Camera di appartenenza di questo o di quel ministro fatto oggetto di denuncia, avrebbe consentito all'ufficio del Pubblico Ministero, che aveva iniziato a suo tempo le indagini, di portarle dapprima davanti al giudice istruttore e poi davanti al Tribunale ordinario, previe magari le opportune archiviazioni e con successive possibilità di gravame. Trattandosi d'un reato dallo stampo comunissimo, qual è la corruzione e per giunta, d'un reato che non può fare a meno del concorso di più persone fin questa ipotesi, almeno un ministro e almeno un laico), l'autorità giudiziaria ordinaria, abituatissima ad occuparsi di episodi, sia pur più modesti e appartati, di corruzione, sarebbe stata altrettanto, se non addirittura più adatta ad occuparsi del caso. Oltre tutto, si sarebbero evitate sia le interminabili polemiche sulla sorte processuale degli imputati laici, decisamente meno tutelati, sia gli inconvenienti collegati all'inoppugnabilità del verdetto, causa prima dei tempi lunghissimi che hanno caratterizzato il dibattimento e, più ancora, la camera di consiglio. Un tale passivo sarebbe stato accettabile, in quanto ripagato dall'elevatezza dell'organo e dall'eccezionalità della sede, se un metraggio così enorme non avesse comportato il virtuale blocco delle altre attività, veramente fondamentali e insostituibili, della Corte Costituzionale. Il danno che ne è derivato in infiniti settori del vivere sociale ha già raggiunto gradi elevatissimi, lasciando insoluti chissà per quanto migliaia di dubbi sulla legittimità costituzionale di leggi importantissime, sia a livello statuale che a livello regionale. Un secondo processo Lockheed sarebbe la tomba della Corte Costituzionale come giudice di legittimità. Urge una riforma radicale: la cosa, benché non facile, è inderogabile. Lo Stato deve essere in grado di perseguire i reati ministeriali ogni volta che se ne profilino gli estremi. Sarebbe triste che l'ex Commissione inquirente si trasformasse in un meccanismo di insabbiamento, magari ad evitare il rifluire di giudizi d'accusa verso la Corte Costituzionale. I benefici effetti della sentenza Lockheed andrebbero perduti. Giovanni Conso