MASO La Twin Peaks del Veneto

MASO La Twin Peaks del Veneto «L'erede», romanzo verità di Gianfranco Bettin: ricostruiti i delitti di Montecchia MASO La Twin Peaks del Veneto ■«ri ELLA vicenda di Pietro |» Maso e dei suoi complici « c'era forse qualcosa di più Il di un delitto di paese, per À-U quanto atroce. Vi si poteva forse cogliere qualcosa di estremo, ma che riguardava tutti, chiunque respirasse l'aria dei nostri anni». Così Gianfranco Bettin spiega ai lettori e a se stesso le ragioni che lo hanno spinto ad occuparsi, da quando si seppero le prime notizie e per un intero anno, del delitto di Montecchia di Crosara. Ne è uscito un libro, «L'erede. Pietro Maso, una storia dal vero», 160 pagine, 20 mila lire, in libreria dalla settimana prossima edito da Feltrinelli. Un libro che prevedibilmente farà molto parlare e che si può considerare segno di tendenza: anche in Italia arriva finalmente un genere di scrittura pochissimo praticato. Modello letterario, il celebrato «A sangue freddo» di Truman Capote (la ricostruzione di uno sconosciuto delitto di una famiglia di agricoltori nel Kansas, anno 1965), in cui lo scrittore americano mischiava per la prima volta gli stili di inchiesta più disparati: dal giornalismo investigativo allo studio geografico antropologico; dalla costruzione cinematografica all'elaborazione della struttura del romanzo, forgiando un genere nuovo, la «nonfiction novel», il «romanzo verità». «Storia dal vero» è questo «L'erede» di Gianfranco Bettin, scrittore dalla biografia singolare. Veneziano di 37 anni, ricercatore sociale e autore di due romanzi, è attualmente deputato eletto nelle liste dei Verdi. I lettori sicuramente non hanno dimenticato la storia. La notte del 17 aprile 1991, nel piccolo paese di Montecchia di Crosara, 3900 abitanti in provincia di Verona, vennero brutalmente uccisi nella loro casa due agiati agricoltori, i coniugi Rosa e Antonio Maso. Pochi giorni dopo, il loro figlio Pietro, 20 anni, si confessò autore del delitto compiuto insieme a tre amici. Movente: l'acquisizione dell'eredità. I lettori ricorderanno anche le diverse interpretazioni del delitto. Frutto di «forze oscure sovrappersonali e persino sovrannazionali» che avevano ferito un mondo di saldi valori cristiani, secondo il vescovo di Vicenza, Pietro Nonis; prodotto di un «microcosmo apparentemente pacifico, in realtà aggressivo o ancor peggio vittimista», secondo la consulenza psichiatrica del prof. Vittorino Andreoli. Ora il libro di Bettin ci porta con la potenza disturbante dei dettagli e il riuscito assemblaggio di fonti diverse - in uno dei tanti nuovi paesaggi italiani che spesso non si vogliono vedere e ancor più spesso non si vogliono capire. In questo caso, il profondo Nord di una Twin Peaks veneta. Bettin descrive e commenta poco. Si limita a dire di sentir passare attraverso la ricca Montecchia «il soffio del vento idio- ta», quello cantato dal vecchio Bob Dylan. Il paese, prima di tutto. Ordinato fino alla noia, reso ricco da una duplice economia: vigne e ciliegi da una parte, tomaifici dall'altra. Ma la ricchezza non ha portato allargamenti culturali. I ragazzi, con l'assenso dei genitori, interrompono molto spesso gli studi dopo la scuola dell'obbligo e si impiegano come commessi nei negozi o operai nei tomaifici. Il loro mondo è chiuso, diffidente, gira intorno al «Bar John» (vero protagonista del libro) e ai suoi riti di iniziazione sociale: ottenere dal barista l'autorizzazione a saldare il conto a fine mese; essere ammessi al tavolo di poker degli adulti; ottenere ammirazione sfoggiando abiti firmati. A pochi chilometri, Verona, la città ricca che però schiera i tifosi di calcio più razzisti d'Italia e, nel silenzio, ha seppellito negli ultimi dieci anni 300 morti per overdose di eroina (dalle statistiche comparirà che non erano emarginati sociali, ma per il 70 per cento persone dal lavoro stabile e sicuro). Pietro Maso fa il commesso di un supermercato, ma si licenzia perché vuol fare «la bella vita», che identifica nella professione di intermediario di automobili di lusso. Non pensa di andare altrove, ma di rimanere a Montecchia. Il suo sogno maggiore è la Bmw 2000 con interno in radica. In attesa, soddisfa altri sogni di base: il telefono cellulare Martin Dawes, l'orologio Rolex, anelli d'oro e, soprattutto, profumi. Con vero orgoglio, Pietro Maso spiegherà di avere nella sua stanza 50 confezioni di profumi di tutte le marche pubblicizzate, che cambia a seconda delle circostanze. Quando decide di sterminare la sua famiglia per impossessarsi dell'eredità - che lui valuta intorno al miliardo e mezzo di lire - non ne farà mistero. Ne parla al Bar John per reclutare complici, ai quali promette una parte consistente del bottino, ma ne parlerà anche ad altri che declineranno l'invito, ma terranno comunque la bocca chiusa, prima e dopo il delitto. L'omicidio lo chiama «il lavoro», una cosa rapida, un piccolo diaframma che lo separa dai soldi. Soldi che sente profondamente suoi, dovuti. Quando esce dal Bar John per andare con gli altri ad uccidere, è sicuro di sé. Incontra Michele, un ragazzo che è al corrente dei preparativi. Michele chiede: «Ma cosa fate, insomma?». E Maso: «Il lavoro, no? Andiamo a fare il lavoro. Ghemo da copare gente. Allora, vieni?». L'omicidio avvenne di aprile, ma per i ragazzi, marzo era stato «il mese più bello della loro vita». A marzo era successo che l'amico di Pietro, Giorgio, aveva ottenuto con fidejussione del suo datore di lavoro un prestito di 25 milioni per acquistare una Lancia Delta Integrale usata di cui si era innamorato. Ma i genitori di Giorgio si erano fermamente opposti e a Giorgio erano rimasti quei soldi. Lui e Pietro li spesero in un mese, tra discoteche, ristoranti, acquisto di gioielli, regalie agli amici, senza che nessuno si stupisse più di tanto per quell'improvviso cambio di vita dei due ragazzi. Ma ad aprile bisognava restituire i soldi alla banca e Pietro falsificò un assegno della madre. Un assegno da 25 milioni a un ragazzo firmato dalla signora Maso che mai, allo sportello del paese, aveva compiuto transazioni superiori al milione. Eppure la banca lo accettò, senza neppure una telefonata. Ma i genitori di Maso l'avrebbero scoperto e per questo, quindi, il giorno dopo il versamento, Pietro e Giorgio decisero di compiere, finalmente, «il lavoro». Avevano fatto già diversi tentativi; addirittura progettato di far scoppiare la casa con bombole a gas collegate a un timer. Ma quando si trovarono nella casa buia ad aspettare il rientro dei genitori di Pietro, gli strumenti che avevano in mano erano i più semplici: un tubo di ferro pieno, un antifurto biocca-volante, una pentola. I genitori, colpiti ripetutamente, gridavano e si lamentavano, ma non morivano. I ragazzi allora li soffocarono: la signora Maso con una coperta sulla bocca, il signor Maso con un piede sulla gola. Poi si lavarono e andarono alla discoteca «Berfi's» per l'alibi. Il cane di casa, naturalmente, non abbaiò. All'esame psichiatrico, Pietro Maso risulterà per il prof. Andreoli un soggetto «affetto da disturbo narcisistico di entità medio-lieve»; sia lui che gli altri «ai limiti inferiori della norma» per quoziente di intelligenza. La difesa di Maso al processo invocherà invece un «episodio meningeo» sofferto nell'infanzia e spiegherà il delitto con «un clima di eccitamento maniacale, un senso di onnipotenza di stampo delirante che la patologia di Maso è riuscita ad instaurare in modo contagioso agli altri, ricevendone a sua volta rinforzo». Il diavolo, i Distri, sono stati evocati dai difensori. La banalità del Dio Denaro, no. Eppur^^roprio i coniugi Maso avevano cominciato a staccarsi «dai riti superficiali del vivere e del credere». Nell'ultimo anno della loro vita avevano preso a seguire due volte la settimana «la preghiera» al convento dei frati di Lonigro dove si riuniscono i «neo catecumenali», un gruppo cristiano mistico che predica «la liberazione dai falsi valori attraverso l'ascetismo». La sera in cui vennero uccisi tornavano appunto dalla preghiera. Si è saputo dopo l'omicidio che la madre di Maso era inquieta per il suo figlio Pietro che da qualche tempo «aveva troppi soldi in tasca». E' stato provato che Maso non aveva alcun motivo di odio nei confronti dei genitori. E' stata smentita la tesi sostenuta dal filosofo Karl Popper, che commentò il delitto sulla scorta di articoli pubblicati dalla stampa inglese e concluse indicandone la causa nella «violenza devastante operata dalla televisione». I ragazzi non erano televisionedipendenti, tranne Giorgio che la sera si ritirava in camera e inseriva nel video-registratore le cassette di «Nightmare, dal profondo della notte» con Freddy Krueger. E' una netta esagerazione giornalistica la notizia che Pietro Maso in carcere abbia ricevuto centinaia di lettere che lo identificano in un eroe. E' vero invece che Montecchia ha reagito con insofferenza ai giornalisti che chiedevano di capire e che, proprio per difendere il buon nome del paese, i voti si sono spostati dalla democrazia cristiana alla lega veneta. Pietro Maso, condannato a trent'anni in primo grado, aspetta l'appello nel carcere di Verona. A Bettin che ha potuto incontrarlo (il loro colloquio costituisce l'ultimo capitolo del libro) è apparso tranquillo, ben curato, profumato. E' deluso e irritato per chi parla di lui come di un mostro. Dice: «A un ragazzo che ha fatto una cazzata, bisogna dare un'altra possibilità. Bisogna cercare di capirlo». Alla domanda: «Rifaresti quello che hai fatto?» risponde, dopo un lungo silenzio: «Salterei U mese di marzo. Vorrei che non ci fosse stato». Enrico Deaglio In attesa d'appello l'assassino dice candidamente: «A un ragazzo che ha fatto una cazzata bisogna dare un'altra possibilità» Padre e madre uccisi dal figlio di vent'anni per l'eredità m A fianco, Pietro Maso in Assise con un complice. Sopra, con le sorelle al funerale dei genitori. Sotto, al momento dell'arresto