America, caput mundi ma non troppo

America, caput mundi ma non troppo LA PIÙ GRANDE POTENZA DAI TEMPI DELL'IMPERO ROMANO. MA L'EUROPA NON È IRRILEVANTE America, caput mundi ma non troppo È In edicola il nuovo numero di GlobalFp, il bimestrale dell'Istituto Affari Intemazionali e dell'Istituto per gli Studi di Politica Intemazionale edito dalla Stampa con ForeìgnPolìcy Magazi/le. Pubblichiamo una sintesi dell'articolo di Cesare Merlini. Cesare Merlini LA scrittrice franco-belga Marguerite Yourcenaf, autrice delle bellissime e fittizie «Memorie di Adriano», impresta all'anziano imperatore romano il seguente frammento di ricordo di un soggiorno di studio in Grecia durante i suoi anni giovanili: «Nel bel mezzo dei miei studi ad Atene, dove tutti i piaceri trovano posto con misura, rimpiangevo non già Roma in sé stessa, ma l'atmosfera del luogo' ove si fanno e si disfano continuamente le vicende del mondo, il cigolio^ stesso degli organi della macchina del potere». Quante volte queste parole mi sono tornate alla mente in occasione delle frequenti visite che io, europeo che veniva da Roma, ho avuto occasione di fare a Washington per 25 o trent'anni. E semi capitava di condividere con i miei interlocutori americani questa piccola rimembranza letteraria e l'analogia che mi veniva di fare con l'Europa e gli Stati Uniti del nostro tempo, la loro reazione era di norma quella di schermirsi, lasciando alla retorica della propaganda sovietica, fin che si era in guerra fredda, e poi dell'antiamericanismo di piazza l'accusa di imperialismo rivolta al loro paese. Una volta. Ora non più. Non che tutti gli americani si sentano improvvisamente imperialisti. Solo che adesso il riferimento al concetto di impero e suoi derivati e a situazioni imperiali della storia è divenuto moneta corrente nel dibattito politico e politologico negli Stati Uniti. Quando alla fine degli anni 80 il sistema sovietico collassò, l'opinione pubblica americana sembrò colta da una vertigine da responsabilità intemazionale e la prospettiva di diventare il «world copti, lo sbirro del mondo, era sentita più come un incubo che come un'ambizione. Ora proliferano articoli, libri e dibattiti sull'uni- lateralismo nella politica estera americana, sulle caratteristiche imperiali, se non imperialiste del ruolo de^li Usa nel mondo e sulle analogie storiche di una simile situazione di «iperpotenza» solitaria. - Come spesso accade con le analogie storiche, si tende a fare delle semplificazioni e una di queste è parlare di un Impero romano, sotto l'effetto zoom della storia, per cui si appiattiscono su un unico sfondo i secoli e le alterne vicende di una 'così complessa struttura. Ma conviviamo con la semplificazione e ricordiamo che l'Impero venne dopo la Repubblica, attraverso ima transizione cruenta, e dopo le Guerre Puniche, che portarono, non meno cruentemente, all'eliminazione del grande rivale in quell'area mediterranea allargata che costituiva il «mondo» di Roma. Altre minacce esteme erano, sì presenti, ma nessuna aveva le stesse caratteristiche dirette e complessive di quella cartaginese, perché o, come gli imperi asiatici, troppo lontane in relazione alle comunicazioni e al grado di interdipendenza del tempo, oppure più vicine, ma troppo deboli, almeno fino alle calate dei barbari. La Grecia era irrilevante. Alla luce di questo sommarissimo richiamo alla Caput mundi vediamo la pohtica estera americana e la sua rispondenza a un ipotetico ruolo imperiale. Il suo rapporto con il quadro istituzionale interno, innanzitutto. Estrapolare la tendenza della «presidenza imperiale», che già ai tempi di Nixon riscontrava lo storico Arthur Schlesinger, in conseguenza ora di una pohtica estera mirante non più all'equilibrio di potenza, ma a un deliberato «squilibrio di potenza)), fino a contemplare un serio deterioramento delle istituzioni democratiche appare del tutto gratuito. E' vero che il nuovo Grande Nemico, che dopo l'U settembre gli Stati Uniti hanno individuato, è un nuovo tipo di nemico. Per quanto ci si sforzi di identificarlo ora con uno Stato (l'Afghanistan) ora con un altro (l'Iraq), esso è meno focalizzabile e prevedibile e molto più pervasivo e pericoloso. La gamma degli strumenti per combatterlo investe il fronte intemo come se-non più del fronte estemo e pertanto preme sui requisiti dello Stato di diritto. A ciò si può aggiungere il fatto che il carattere religioso della nazione, americana («One nation under God»), già più marcato che in qualunque altra nazione occidentale, è esaltato dall'influenza delle correnti cristiane più conservatrici, quando non addirittura fondamentaliste, sull'attuale maggioranza presidenziale. Tuttavia le radici della libertà e della democrazia restano salde, come provato dal fatto che ogni tendenza che si manifesta suscita, quasi di riflesso, movimenti ad essa contrari. Gli esempi sono innumeri. Il quadro intemazionale. Il «mondo» degli Stati Uniti è tutto il mondo; non ci sono potenze troppo lontane. Potenze lontane o vicine, grandi o piccole, reali o fasulle hanno i loro problemi di equilibrio, su cui l'influenza americana agisce, anzi è spesso chiamata ad agire dagli attori locali. In questo senso sembra esservi ima «domanda» di impero: così almeno intendeva Madeleine Albright, quando definiva il suo come lo Stato «indispensabile» alla stabilità mondiale. Ma la struttura del potere intemazionale è molto più complessa di quella descritta dalla gerarchia delle maggiori potenze, a cui si limita la scuola dei realisti, non solo per la presenza di 200 nazioni e di migliaia di Ong, ma per la transnazionalità dei mercati, delle migrazioni. delle comunicazioni. Alla domanda apparente di impero non conisponde quindi un'«offerta» adeguata, perché la sola overcapadty militare fatica a imporre soluzioni sempre e dovunque, ma soprattutto non riesce poi a gestirle. Henry Kissinger intitola il capitolo di apertura del suo ultimo litro: «America all'apice: impero o leader?». Ora l'apice di potenza di cui parla Kissinger è stato conquistato da un'America repubblicana, con un mix di egemonia e di influenza, attraverso alleanze e istituzioni. L'abbandono del mix, per esaltare l'egemonia, porterà alla discesa dall'apice. E non per quel declino della potenza americana, che in un articolo di Global ora in edicola Immanuel Wallerstein afferma apoditticamente esservi fin dagli Anni 70 diavolo di una potenza declinante che porta quella contrapposta a liquefarsi! -, ma perché proprio la fine dell'impero antagonista e l'emergere della minaccia del terrorismo dovrebbero spingere ad esaltare invece l'influenza. E' curioso che dal quadro di Wallerstein sia totalmente assente l'Europa, che evidentemente è «irrilevante» per lui, intellettuale di sinistra americano, come per la destra unilateralista - a come la Grecia ai tempi di Adriano. Ma l'Europa non è irrilevante. Solo che, «grazie all'esperienza unica dell'ultima metà di secolo - culminata nel decennio scorso nella creazione dell'Unione europea - ha sviluppato un corpo di ideah e principi sull'utilità e sull'etica della potenza, diversa dagli ideah e principi degli americani, che non hanno condiviso quell'esperienza»; così scrive suPolicyReview (giugno-luglio 2002) un altro studioso americano, Robert Kagan, per il quale questa divaricazione fra le due rive dell'Atlantico potrebbe essere irreversibile. L'autore ha ragione nel rilevare una perdita di volontà europea di contare nel mondo e neh'attribuirne parte della spiegazione alla crescita delle istituzioni integrate all'ombra dell'ombrello di sicurezza americano. Ma è probabile che a ciò finisca ora per contribuire l'insistenza degli americani sulla loro superiorità mihtare, che rende apparentemente margi¬ nale ogni incremento delle capacità europee. Peraltro nei paesi dell'Ue proprio quei politici e quegli intellettuali che più sono tradmonalmente sensibili alla cultura della potenza sono anche spesso i più contrari a una vera integrazione politica,mihtare e di sicurezza, accettando piuttosto, in nome della Realpolitik, la semi-impotenza degli Stati membri presi separatamente. I lavori della Convenzione ci daranno modo di capire se vi sono volontà e consenso sufficienti per superare questa contraddizione. Intanto si deve contestare chi svilisce i ruoli diversi da quello della forza mihtare, contestare la caricatura degli europei che lavano i piatti dopo die gii americani hanno preparato e servito la cena. Oltre a saper muovere guerra, bisogna saper «muovere pace». Quello che sta avvenendo nei Balcani è un esempio di faticosissimo processo di pacificazione e di stabilizzazione, grazie a cui bene o male i serbi votano liberamente, il ponte di Mestar viene ricostruito, i bambini kosovari parlano albanese a scuola e macedoni di diverse etnie convivono. Forze d'ordine, esperti e Ong, provenienti principalmente dall'Europa, vigilano, consighano, addestrano sul posto, mentre i media, Grm in testa, vanno altrove perché la guerra fa più notizia e spettacolo della pace. La pace la si ottiene con la potenza, ma la si mantiene con le regole e le istituzioni. Gh americani si sono attenuti a questa regola d'oro dopo il '45 e dopo l'SO, ma sembrano adesso inclini a dimenticarla, il che non sarà senza conseguenze. Come scrive Nye, se l'America «cede alla tentazione unilateralista troppo facilmente (...) si troverà spesso a fallire, per la natura intrinsecamente multilaterale dei problemi transnazionah in un'era globale». Quella dell'impero «a fin di bene» è ancora una volta un'illusione. Dice l'immaginario imperatore Adriano, giunto in fin di camera: «Roma non è più Roma: dovrà riconoscersi nella metà del mondo o perire. (...) La città è diventata Stato. Avrei voluto che lo Stato si amphasse ancora, divenisse ordine del mondo, ordine delle cose». Già, avrei voluto.