Kurosawa, ultimo samurai

Kurosawa, ultimo samurai Intervista II regista di «Ragemusha» parla del suo film sta Kurosawa, ultimo samurai « // mondo di oggi si va sempre più deteriorando. Trovo il passato infinitamente più bello. Vorrei che i giovani riuscissero ad imparare dagli uomini del passato e dalla loro cultura, molto più valida della nostra') Per concludere gli «Incontri internazionali» di cinema che si svolgono ogni anno a Sorrento, viene presentato questa sera, al San Carlo di Napoli in anteprima per l'Italia, l'ultimo film di Akira Kurosawa, «Kagemusha», vincitore della Palma d'oro all'ultimo Festival di Cannes. Gli incontri di Sorrento hanno in programma di dedicare al regista giapponese una «personale» il prossimo anno. In occasione di questa anteprima (e mentre il film sta per essere proiettato sugli schermi delle maggiori città italiane) pubblichiamo una intervista di Jacques Siclier con l'autore di «Kagemusha». «Kagemusha», che vuol dire «l'ombra del guerriero», racconta una storia accaduta nell'antico Giappone durante il periodo di passaggio dall'epoca delle armi da taglio a quella delle armi da fuoco e del tramonto di un potente oan, i Takeda. «Kagemusha», un piccolo ladruncolo, viene salvato dalla crocifissione perché assomiglia a Shingen, il capo carismatico dei Takeda, che decide, secondo un costume consueto nell'antico Giappone, di portarlo in battaglia come un doppio, un'ombra di se stesso, per disorientare'il nemico. Guai e avventure del piccolo ladro inizieranno il giorno in cui Shingen, ferito a morte ordinerà di tenere segreta la propria fine e gli farà assumere il ruolo di samurai. — Perché lei è rimasto cinque anni inattivo nel cinema dopo «Dersu Uzala» che pure aveva avuto un grande successo internazionale? -Il successo di uno dei miei ii\m non significa, per me. la soluzione dei problemi finanziari Avevo girato Dersu Usala nell Unione Sovietica e vi avevo speso tutti i miei guadagni. In Giappone la mia situazione non è mai stata facile. Ogni volta che realizzo un film aumento i miei debiti. Ma non mi sono fermato dopo Dersu Uzala. Ho scritto tre sceneggiature, l'ultima e Kagemusha. • Per scrivere una sceneggiatura mi ci vuole un anno, e — si ritorna al denaro — stento molto a trovare un produttore. Oggi chi prende le decisioni nelle case di produzione giapponesi non e piU ii responsabile artistico, sono i direttori commerciali, cioè i più ottusi del mondo. Non capiscono niente delle mie sceneggiature (e non soltanto delle mie). Dicono che non piaceranno al pubblico. "Piacere al pubblico" è la loro sola preoccupazione, ma non conoscono neppure il pubblico di cui parlano. ■Ho proposto Kagemusha dopo due infruttuosi tentativi con le sceneggiature precedenti. Le cose si sono trascinate, ci sono state discussioni lunghissime e complicatissime. In questo caso non si trattava tanto d'un problema di contenuto, quanto di soggetto. Fui bloccato ancora una volta quando Francis Ford Coppola e George Lucas. con i quali avevo parlato del mio progetto, ottennero dalla "XX Century Fox" un contributo di 150.000 dollari. Non mi aspettavo il loro aiuto, non me lo avevano proposto.' Hanno agito direttamente. Noh c'è stata alcuna discussione sulla sceneggiatura. Coppola e Lucas sapevano che cosa volevo fare e anche se la Fox avesse voluto intervenire (ma non l'ha fatto) non avrebbero accettato condizioni contrarie ai miei desideri. — I critici notano che lei passa alternativamente da soggetti contemporanei a soggetti storici. «Kagemusha» è un ritorno al passato del Giappone. Perché? •Non sono d'accordo con questa distinzione tra presente e passata è arbitraria. Se mi viene in mente un soggetto, il motivo è che questo soggetto mi appassiona, diventa per me una necessità e poco importa che si collochi nel mondo d'oggi o nel passato. Insisto: dal momento in cui affronto un soggetto storico, inevitabilmente traduco " il passato con la mia visione e la mia esperienza attuali. Ma quando ritorno alla storia, mi accorgo che il mondo di oggi si va sempre più deteriorando. «Trovo il passato infinitamente più bello, nei suoi costumi, nelle sue consuetudini, nel suo stile di vita. Sono convinto che gli uomini del passato fossero d'una qualità decisamente superiore : hanno costruito una cultura molto più valida, molto più brillante di quella del ventesimo secolo. Vorrei che i giovani di oggi riuscissero a trarre insegnamento dagli uomini del passato: Ma mi sento hi Imbarazzo a spiegare queste cose, non faccio mai del tutto coscientemente un film, con lo scopo d'in■segnare qualcosa. La parte più importante avviene nell'inconscio dell'autore d'un film, ed egli non la può spiegare. Per me l'unica motiva¬ zione valida per scrivere e realizzare un film sta nel crearlo.. — In «Kagemusha» ci sono molte battaglie, che si svolgono nel sedicesimo secolo. Il suo giudizio su quest'epoca si estende anche all'arte militare? , • Assolutamente no. Quando parlo di una cultura più brillante mi riferisco ai periodi di pace. Purtroppo guerre ce ne sono sempre state. Nella nostra epoca in fatto di guerra sono stati fatti grossi progressi: si può uccidere un numero infinitamente superiore di uomini d'un sol colpo. Ma nel secolo di Kagemusha c'era una componente estetica persino nel cerimoniale della guerra: gli stendardi issati su aste flessibili, le decorazioni, le armature, gli elmi con i loro stemmi ( i guerrieri facevano a gara tra loro per averli più belli), il modo di manovrare le schiere dei soldati. Volevo mostrare questa estetica della guerra come documento storico». — Si parla molto del tema del sosia, che domina tutta l'azione del film. Conoscendo la sua ammirazione per Dostoevskij e per una certa letteratura europea, ci si chiede se questa influenza abbia avuto una parte im¬ portante nella sua opera. Oppure se sia un tema preSente anche nella letteratura giapponese. •No, non è un tema della letteratura giapponese, e d'altra parte non l'ho preso a prestito da Dostoevskij o dall'Europa. Mi Sono ispirato semplicemente a un fatto storico. Era una tradizione, per i signori della guerra, avere per prudenza un sosia che li sostituisse in certe occasioni. Rischiavano infatti di èssere uccisi e di far crollare con la loro morte anche il loro clan: questi signori della guerra dovevano perciò sopravvivere il più a lun¬ go possibile. «Il mio film è tratto da cronache storiche, con personaggi che furono celebri. Shingen, il capo del clan Takeda, aveva perfezionato la tradizione dei sosia. Ne ebbe molti. Durante le battaglie non si sapeva mai se fosse lui o un altro alla testa dei soldati. Era un fatto che rafforzava la sua personalità, il suo potere». — Ma «Kagemusha» è la storia di un sosia dopo la morte di Shingen. Questo ladro, salvato dalla crocifissione per recitare una parte effimera, diventa, prima suo malgrado poi sciente¬ mente, il personaggio Shingen, di cui d'altronde è sosia, e con Shingen poco alla volta finisce per identificarsi. Al di là della cronaca storica, non c'è forse nel film un significato metafisico? «No. Non penso mai alla metafisica quando realizzo un film. Quando Shingen è ferito, egli pensa soprattutto a proteggere il territorio che suo figlio è incapace di difendere e di conservare. Cosi continua ad essere presente •attraverso Kagemusha che fisicamente è il suo "sosia perfetto. Dopo la morte di Shingen, la gente del clan, ì generali, secondo la sua vo-

Persone citate: Akira Kurosawa, Dostoevskij, Francis Ford Coppola, George Lucas, Jacques Siclier, Kurosawa, Takeda