Pavese? Dava fastidio perché cercava la verità di Nico Orengo

Pavese? Dava fastidio perché cercava la verità Giulio Einaudi ricorda trenfanni dopo Fautore de «Il mestiere di vivere» —i Pavese? Dava fastidio perché cercava la verità TORINO — Giulio Einaudi è uno degli ultimi a lasciare la sua casa editrice nel finire di luglio e fra i primi a rientrare, prima che inizi settembre. E' una vecchia abitudine. Così può passeggiare per i corridoi semideserti e in ombra di via Biancamano, senza timore di dover incontrare e salutare chi non aspetta. Può affacciarsi negli uffici per commentare l'assenza di un suo collaboratore; telefonare a un altro che a centi-, naia di chilometri di distanza credeva di poter passare vacanze serene; recuperare giornali e ritagli stampa che in qualche sperduta isola non sono riusciti a raggiungerlo. Ma può soprattutto vedersi il piano dei libri che dovranno uscire in autunno, sfogliare le prime copie che la tipografia gli ha stampato d'agosto, trovare un errore, anche piccolo: una data sbagliata, un nome saltato, con l'occhio del contadino che intuisce, prima di vedere, sul campo il sasso o la radice dell'albero che da lontano può disturbare la semina. Allora suonano campanelli, telefoni, corrono fattorini e collaboratori. E c'è sempre qualcuno che sospirando interrompe la vacanza. \ A trent'anni di distanza dalla morte di Pavese gli avevamo chiesto Se voleva parlarci dell'uomo che è stato fra i suoi più stretti collaboratori, colui al quale il catalogo della casa editrice deve molto. Nel suo studio, sul tardi quando il parcheggio che intasa corso Re Umberto è ormai vuoto, Einaudi si era preparato una cartellina con su scritto, di suo pugno, Pavese e le edizioni, in due volumi, delle Lettere dell'au- tore di Paesi tuoi, quelle curate da Italo Calvino e Lorenzo Mondo. Volevamo chiedergli se ricordava il primo incontro, l'ultimo e altre cose. Ma per tre volte non c'era stato nulla da fare. Giulio Einaudi apriva la cartellina, si immergeva nella lettura deU'epistolario, guardava l'indice dei nomi, chiamava al telefono un collaboratore per confrontare lo stipendio di Pavese alla data d'assunzione, il 27 aprile del 1938 (impiegato di la categoria, a 2000 mensili lorde), con gli stipendi di alcuni dei suoi attuali redattori, i suoi compiti (tradurre dall'inglese 2000 pagine l'anno, revisione manoscritti e bozze di traduzioni altrui dall'inglese, revisione bozze di libri di carattere storico letterario, esame di opere anche inedite, sia italiane che straniere, lavori saltuari di redazione e revisione della corrispondenza inglese, una o due volte la settimana, nelle ore che gli faceva comodo) e i loro, il rendimento attuale e il suo («con i notevoli risparmi di uno che lavora a casa e non consuma spazio, luce, telefono e il riscaldamento dell'azienda»). Troppo tardi, ogni volta, per continuare un'intervista mai iniziata, in trattoria Giulio Einaudi invece parlava volentieri, ma di tutt'al- tro: i libri letti durante Pestate, la situazione politica, i funerali: quelli a cui era andato, quelli a cui non sarebbe mai andato, e intanto quello di Franco Basaglia che stimava moltissimo («uno che ha pagato di persona le sue scelte, uno dei pochi che sia riuscito a far attuare una riforma»); trovava anche qui, in una delle ultime trattorie torinesi con la «topia» l'errore tipografico sull'etichetta di un dolcetto qualunque che gli avevano servitoT Ma poi, chiedendo di rispondere a «domande precise», lontano dai suoi appunti, dai volumi delle Lettere, ricorda altre, lontane serate, quelle con Pavese, dopo il lavoro di casa editrice: «La sua serenità di stare con gli amici, in una osteria con un buon bicchiere di vino. Pavese ascoltava i discorsi con un Heve sorriso ironico, ogni tanto se ne usciva con battute precise. Nel suo aspetto serio traspariva una grossa carica umana e autoironica. Si parlava di tutto, in quelle serate, della nostra vita.privata, di ideologia, negli ultimi anni si parlava molto delle persone. Pavese cercava di individuarne i lati più curiosi e interessanti». A trent'anni dalla morte, proprio in questi giorni, la stampa italiana, con qualche eccezione, ha dimostrato molta insofferenza per Pavese, c'è stato un tentativo di ridimensionamento, più umorale che critiòo, verso la sua figura umana e anche la sua opera. Pavese continua a infastidire? «Sì, certo. Adesso si muore per altre ragioni che forse sono più di moda. Il suundio, sofferto per anni, di Pavese, questa liberazione dalla vita amata e odiata è talmente emblematico che lo si cerca di cancellare, di rimuovere dalla propria coscienza. Almeno così cercano di fare alcuni critici. A me pare che il pubblico è i giovani soprattutto, e i dati me lo confermano, seguitino ad amarlo». Anche in vita Pavese non provocava simpatie, non andava d'accordo con molti degli intellettuali e scrittori suoi coetanei. Perché? «Dava fastidio anche in vita, sì. Perché era diverso da loro. La sua non diplomazia, l'ombrosità; la sua continua ricerca di verità, facevano di lui un tipo raro nella cultura e nella letteratura». Lei si ricorda come avvenne il primo incontro? «I primi contatti sono sfuggenti, sfumati. Era un tipo che a prima vista non faceva grande impressione. . Era da scoprire giorno dopo giorno, nelle sue bizze quotidiane, nelle sue nevrosi. Il ricordo di lui si amplia nel tempo, anno dopo anno. E' così che il suo ricordo è più sentito, più forte. I primi rapporti risalgono al tempo in cui aveva assunto la direzione responsabile della rivista La Cultura. Ma i nostri rapporti più organici incominciano solo dopo il suo arresto e il confino, nell'aprile del '38, quando incominciò a lavorare per la casa editrice». Pavese redattore che uomo era? «Ho il ricordo di un Pavese lavoratore infaticabile, passava la sua giornata a casa o in ufficio a scrivere, a tradurre, a rivedere bozze e manoscritti con grande pignoleria. Lavorava molto, ma non solo come redattore. E' a lui che dobbiamo, con almeno trent'anni di anticipo, gli interessi che la cultura italiana oggi ha verso l'antropologia e l'etnologia. Fu lui a leggere e pubblicare, nella collana viola, D mondo magico di De Martino. L'anima pri¬ mitiva di Lévy-Bruhl, Le Tardici storiche dei racconti di "fate di Propp. «Era un precursore di interessi e riusciva a imporre le cose che lui pativa, soffriva, che lo incuriosivano. E queste proposte trovava la forza di seguirle fino in fondo, lavorandoci, scontrandosi, litigando. Per questa cura che aveva per il libro, per quest'amore verso le cose in cui credeva, assomigliava a Luigi Einaudi. Quando prendeva un manoscritto non lo abbandonava, lo curava fino alla fine, indici analitici e tutto il resto.-Era un maniaco, in senso buono. Un libro nelle sue mani diventava un libro fruibile. Pavese era un artigiano, mentre Vittorini era più industriale. Vittorini aveva una idea e poi lasciava andare, doveva essere la macchina editoriale ad occuparsene». Lei ha amato più Pavese o Vittorini? «Sono cose difficili da dire, fare paragoni. Vittorini, Pavese, Pasolini, sono grossi personaggi e così lontani. Sono unificati dalla grande statura morale, dalla carica che essi trasmettevano in modi diversi uno dall'altro, ma con un unico comune denominatore, che era una loro profonda sincerità, desiderio di andare a fondo delle cose, di accettare ogni idea avversa per confutarla con più vigore. Uomini insomma». . Lei si riconosce, nelle Langhe descritte da Pavese? «Be', abbastanza». Perché solo abbastanza? «Pavese non era un contadino, parlava diverso». Ha scritto molto di quella terra... «Gli piacevano gli uomini, il paesaggio, il lavoro». La terra della Calabria, di Brancaleone, sembrava averlo interessato pòco. •Odiava il mare, credo. Allora, perché più tardi, quello di Bocca di Magra gli piaceva. Ma un certo interesse, nelle lettere, per Brancaleone lo si capta. Certo trovava uomini e paesaggi diversi. Mi ricordo di una passeggiata, nell'estate del '42, da Gressoney-La-Trinité a Pont' Saint-Martin^ 8 ore a piedi, quarantadue chilometri, per andare a prendere un treno, a un certo punto abbiamo messo i piedi in un ruscello. E mi diceva che le montagne non gli piacevano, gli ricordavano il mare di Brancaleone, si sentiva imprigionato, gli mancava l'orizzonte delle Langhe». E l'ultimo incontro, prima di quel tragico 27 agosto, quando era avvenuto? «In quei giorni d'agosto. Eravamo andati a mangiare al Sollazzo Gastrico, tornavamo tutti e due dal mare, io dovevo andare su in Valle d'Aosta dai miei figli Era stata una serena estate, ne avevamo parlato. Purtroppo il suo rimanere a Torino in quei giorni di vuoto gli ha reso ancor più faticoso il "mestiere di vivere"». Lei torna a rileggere i libri di Pavese? «Sì, il mio interesse va più al lato umano che a quello letterario. Forse perché l'ho conosciuto. Rileggo il diario, le lettere. Ma sono pagine che rileggo con la stessa emozione con cui lessi il primo dattiloscritto di Pavese, Paesi tuoi». Nico Orengo Elio Vittorini è Cesare Pavése

Luoghi citati: Brancaleone, Calabria, Lettere, Torino, Valle D'aosta