Un jazz che sa di preistoria

Un jazz che sa di preistoria Un jazz che sa di preistoria André Hodeir UOMINI E PROBLEMI DEL JAZZ Longanesi, Milano, 320 pagine, 4500 lire Q UESTA ristampa italiana compare inalterata a ventotto anni dalla prima stesura del libro, a ventisei dalla prima pubblicazione a Parigi e a ventidue dalla traduzione dal francese di Mario Cartoni, che è poi questa stessa. Come giustifica l'autore, nella nuova introduzione, la singolare impresa? Hodeir sembra un po' imbarazzato e sorpreso. H jazz è una musica che corre veloce attraverso il tempo, e la sua corsa è ulteriormente sollecitata dai grossi interessi, in specie discografici, che le gravitano attorno. I giudizi invecchiano in fretta, e il tiro dev'essere aggiustato a scadenze brevi con limature e revisioni. Si ha l'impressione che il musicologo francese non si aspettasse l'invito dell'editore italiano: e che comunque, tra il lusingato e il perplesso, non abbia osato rifiutarlo, ma nel medesimo tempo si sia guardato bene dal cedere alla tentazione di affondare il bisturi nel testo originario. Perciò Hodeir mette le mani avanti, si precostituisce delle difese, tira per la manica il lettore verso gli anni in cui ha scritto il libro, ossia esorta a una lettura che inserisca saldamente le sue proposizioni nel momento storico che il jazz e i suoi risvolti attraversavano attorno alla metà del secolo. Ma l'invito va benissimo per chi oggi ha quaranta o cinquant'anni, e a questa storicizzazione anzi ha già provveduto, situando in un angolo della memoria i punti salienti del bel libro, rigoroso e un po' pedante, studiato attentamente in gioventù. Assai arduo, invece, è pretendere che lo facciano i ventenni, ossia coloro che hanno provocato il recente aumento vertiginoso della domanda di musica e quindi la stampa e la ristampa di dischi e di libri nuovi e vecchi, i quali in ultima analisi intendono rivolgersi soprattutto a loro. Posta la questione sotto questo aspetto, c'è da dubitare non poco dell'accoglienza che verrà riservata, da molti nuovi cultori del jazz, alla riproposta di un volume di taglio musicologico e problematico, ricco di pregi ma anche di affermazioni discutibili, la cui lettura presuppone notevoli cognizioni generiche e specifiche. Già venticinque anni fa si era criticata 1*«elaborata ma non convincente analisi di quell'araba fenice del jazz che è lo swing» e si era detto che «il tentativo di svalutazione, riconoscibile sebbene mimetizzato, del blues» sembrava azzardato (figuriamoci adesso, dunque, col tifo che ci fanno tanti ra-, gazzi). Ma reazioni ancora più nette avevano sollevato ventiquattro pagine, diventate famose, di «sproporzionata esaltazione» dedicate" al Concerto for Cootie di Duke Ellington, un capitolo superlaudativo.sul trombonista Dickie Wells e una demolizione molto pesante del clarinettista Johnny Dodds. Se, infine, si pensa che il jazz viene definito (nel 1952) come «un composto indissociabile di distensione e tensione swing e intonazione hot, ma in rapporti estremamente mutevoli» si può pronosticare che parecchi giovani'attribuiranno queste parole a un'epoca vicina all'età della pietra. Al contrario, dovrebbero resistere bene i capitoli suU'improvvisazione e sull'influenza del jazz nei confronti della musica europea, in tutto una set- tantina di pagine. _ _ * & Franco Fayenz _ _ Franco Fayenz

Persone citate: André, Dickie Wells, Duke Ellington, Franco Fayenz, Jazz Longanesi, Johnny Dodds, Mario Cartoni

Luoghi citati: Milano, Parigi