Ma il film è un'arte aperta a tutti i venti di Fernaldo Di Giammatteo

Ma il film è un'arte aperta a tutti i venti Tre saggi cercano di definire il «raccontoper immagini» Ma il film è un'arte aperta a tutti i venti Gianfranco Bettetini TEMPO DEL SENSO Bompiani, Milano 277 pagine, 9000 lire Marc Ferro CINEMA E STORIA Feltrinelli, Milano 163 pagine, 3000 lire Roberto Campari HOLLYWOODCINECITTA' IL RACCONTO CHE CAMBIA Feltrinelli, Milano 226 pagine, 10.000 lire SSONO tre temi in apparenza diversi. H primo riguarda il modo in cui il tempo è rappresentato in un testo audiovisivo (il film) e illustra come il tempo agisce per dare un senso — narrativo, espressivo — a quel tèsto. Il secondo concerne il rapporto che si istituisce (si può istituire) tra il film e la storia, nel suo svolgimento ma anche come memoria del passato. Il terzo mette, a confronto i «generi» cinematografici di Hollywood con quelli del cinema italiano, in due periodi distinti: gli Anni Quaranta e gli Anni Settanta. ' Sono tre saggi di notevole impegno e di grande interes- se. Che vanno presi insieme, nonostante le differenze, perché così offrono buona materia per alcune considerazioni utili a tutti (e non soltanto agli specialisti). Peccato che, nel gruppo, l'opera del francese Marc Ferro parta svantaggiata per colpa di una traduzione infelice (dove, per esempio, a «tirage» si fa corrispondere «tiraggio» e non «stampa» o a «domaines» «domani»; dove non si sa chi è il «poilu» e che Munich non è un fantasma geografico ma, semplicemente, Monaco di Baviera). Ciò che unisce le tre indagini è una sorta di ottimismo LUuministico, applicato a quell'oggetto così poco «razionale» che usiamo chiamare film e quell'astruso meccanismo produttivo che ovunque è definito cinema. Il tentativo degli autori — dal semiologo Bettetini che prosegue in coerenza un lavoro più che decennale allo storico degli «Annales» che affronta il cinema con una baldanza eccessiva, al giovane docente Roberto Campari che di «generi» cinematografici si occupa da tempo — consiste nel dimostrare implicitamente (o, magari, inconsciamente) che le immagini organizzate in linguaggio posseggono una trasparenza — ossia, una comprensibilità — e una forza persuasiva così grandi da sconfiggere qualsiasi mistificazione il potere (o reconomia o l'ideologia ó il pregiudizio o l'ignoranza) architetti alle loro spalle, servendosi di loro. Afferma Bettetini che il cinema è «un apparato che produce tempo e che produce significazione attraverso il tempo». Dice Ferro: «Nell'era del visivo, alle istituzioni e alle opposizioni non è più possibile mentire». Più accorto, Campari chiarisce che «la percezione dello spettatore comune è costituita dall'insieme di racconti per immagini ch'egli vede in un certo momento storico» E relativizza il problema insistendo sulla «assoluta egemonia industriale di Hollywood in tutto il mondo occidentale per molti decenni». Che è una maniera di essere fedeli alla storia (reale, non immaginata) dell'uomo e delle società. In altre parole — per seguire Campari nel suo «storicismo» ma anche per limitar¬ ne il raggio — non tutto e non sempre, nel cinema come nella struttura nel film come nei «generi» che l'industria cinematografica ha (sull'esempio della letteratura) creato, è così rigorosamente dimostrabile come questi tre saggi tenderebbero a sostenere. Esiste, per dire meglio, un margine di incertezza (o di debolezza: il film è esposto a tutti i venti e da tutti può essere trascinato o travolto o corrotto) che è in grado di incrinare anche la più solida cosmi zione scientifica Affermare, come Ferro afferma, che il cinema sconfigge la censura perché le istituzioni non hanno cultura visiva («Un film, qualunque esso sia, per il suo contenuto trabocca e sfugge tanto al suo censore che a colui che fissa le riprese. Verità dei testi, certo, ma ancor più verità delle immagini, durante questo mezzo* secolo in cui tutte le istituzioni sono eredi della cultura scritta e in cui davanti all'immagine anche ipiù dotti fanno la figura di illetterati») è una gratuita petizione di principio, non suffragata — né suffragabile — da alcuna prova Margine di incertezza, margine di ambiguità. E' questo, probabilmente, uno dei segni, distintivi della cultura visiva contemporanea. Bettetini può, nella sua prospettiva "temporale, analizzare Viale del tramonto di Billy Wilder e giungere alla conclusione che la «voce fuori campo» (la voce del protagonista — William Holden — il quale da morto, racconta tutta la storia) è un artificio «finalizzato alla produzione di ordine, di normatività e di sicurezza in un testo ricco di tenzione e di suspense». Cosa formalmente véra, giacché il racconto fatto (e imposto allo spettatore) da chi sa come la storia è andata a finire non lascia spazio al dubbio. Sennonché il film conserva, e coltiva, dubbi più profondi — è dunque incertezze maggiori — sulle peripezie della storia, sui modi del suo drammàtico svolgimento. A tal punto che il suspense ne riesce, per contrasto, accresciuto e non diminuito, come sa chiunque ricordi, o abbia rivisto recentemente, il film. In materia di immagini sarebbe bene — paradossalmente — non fidarsi mai della evidenza. Così come sarebbe bene programmare — quanto a rigore scientifico e a ricognizioni storiche — continue, pazienti, «aperte», flessibili verifiche. Chi ha detto che le immagini sono nate per ingannare? Fernaldo Di Giammatteo Una scena dal film «viale del tramonto» di Billy Wilder (1950)

Luoghi citati: Hollywood, Milano