I consigli di fabbrica restano le vere radici del sindacato di Luciano Genta

I consigli di fabbrica restano le vere radici del sindacato Trentin espone le sue tesi contro lo spontaneismo e la «politica dei vertici» I consigli di fabbrica restano le vere radici del sindacato Bruno Trentin IL SINDACATO DEI CONSIGLI Intervista di Bruno Ugolini Editori Riuniti, Roma 276 pagine, 5800 lire Iconsigli di fabbrica sono in crisi, le riforme di. struttura non- sono arrivate, le lotte per gli investimenti hanno dato risultati magri, le scelte dell'Eur sono rimaste sulla carta, l'unità e l'autonomia sindacale incontrano resistenze. Come può il sindacato affrontare questi terreni di lotta nuovi e complessi che^gli si sono aperti proprio con le conquiste degli Anni 70? Bruno Ugolini redattore sindacale dell Unità, gira la domanda a Bruno Trentin. Il dirigente della Cgil risponde con un'analisi articolata di dieci anni di storia sindacale, dal '68 ad oggi, esamina luci e ombre, fa l'autocritica, avanza proposte, trentin ha sempre saputo unire militanza e ricerca teorica (per 11 anni è stato responsabile dell'ufficio studi Cgil): non ama posizioni comode o ambigue, preferisce la polemica alle remore diplomatiche; attento alle idee degli altri esprime con chiarezza le proprie. Non a caso è stato proprio luì a ricordare su Rinascita la scomparsa dì Amendola e il suo rapporto «difficile» col sindacato. In questa intervista Trentin difende con pervicace coerenza il sindacato dei consigli, da detrattori vecchi e nuovi, compresi alcuni suoi compagni di partito. I consigli di fabbrica restano la struttura insostituibile per garantire la partecipazione dei lavoratori. Non esistono scorciatoie e alternative a quella che Ingrao in Masse e potere ha definito «la via dell'antidelega». Il malessere e le difficoltà odierne nascono proprio da un impoverimento burocratico dei consigli, da una loro carenza di potere reale. Dieci anni fa essi nacquero come strumenti della base per dare battaglia sulla organizzazione del lavoro. Oggi i temi della condizione operaia non possono più trovare risposta nel chiuso del singolo reparto: occorre saper fare i conti con le grandi scelte di politica economica, collegare le lotte in fabbrica agli obiettivi della programmazione, della democrazia industriale, della trasformazione dello Stato. Questi sviluppi della politica rivendicativa richiedono forme di partecipazione, a cominciare dai consigli di zona, che unifichino i lavoratori sul territorio: altrimenti uno scollamento tra vertici e base creerà pericolose contraddizioni nella linea stessa del sindacato. Qui Trentin inizia l'autocritica: riconosce i guasti dello schematismo, ingenuità, «miopie culturali e politiche». Ad esempio il mito effimero dell'egualitarismo, che ha penalizzato la professionalità: ci sì è illusi di ridurre la forbice delle differenze salariali senza mutare realmente la qualità del lavoro. Un discorso simile si può fare per la struttura del salario, le norme sull'anzianità, la mobilità: si è prodotto un intreccio perverso tra nuovo e vecchio. Così il vecchio rischia di mangiarsi il nuovo: invece, dice Trentin, «la salvaguardia delle conquiste storiche in quel che hanno di fondamentale presuppone oggi non una loro difesa immobilistica ma un loro governo». Era questa la svolta dell'Eur: non si proponeva di fare concessioni al padronato ma di trovare nuovi obiettivi di lotta, una linea d'attacco per saldare in un tutto organico e coerente le rivendicazioni inteme alla fabbri- ca con le lotte per l'occupazione, il Mezzogiorno, la riconversione industriale. Perché la politica dell'Eur non è decollata? Sono intervenute deformazioni riduttive e interessate, processi.alle intenzioni, ^quiescenze e arrendevolezze per non turbare gli equilibri dell'unità nazionale, l'illusione di poter delegare le contropartite a un governo «amico» e gestirsi in proprio i «sacrifici». Ma soprattutto è venuta a mancare la partecipazione convinta dei lavoratori. Per riaffermare l'Eur come strategia degli Anni 80 al sindacato non basta aggiornare e arricchire le sue piattaforme: deve recuperare un rapporto stretto con la base. E non solo con gli occupati. Trentin è attento all'evoluzione dell'economia italiana, mette in rilievo il peso crescente del lavoro precario e marginale (5 milioni e 600 mila persone secondo gli ultimi dati, il 25% della forza lavoro), considera l'emarginazione come una forma di sfruttamento, prodotto di una logica distorta dello sviluppo. Egli è stato tra i primi a proporre di organizzare nel sindacato le leghe dei giovani disoccupati e torna qui a ribadire con forza la necessità di «unire chi ha un lavoro e vuole cambiarlo e chi non ce l'ha». Altrimenti il movimento operaio rischia la di¬ visione e la sconfitta: si troverà di fronte la disperazione di chi si sente abbandonato e impotente e la «segmentazione corporativa» dei garantiti. Dall'intervista emergono accenti di forte preoccupazione: Trentin non si nasconde la gravità del momento, la difficoltà dell'impresa. Ma punta tutte le sue carte su un sindacato che sappia essere «protagonista politico», che faccia i conti, partendo sempre dalla fabbrica, con lo Stato. Difende la sua tesi sulla «destra», contro chi ha nostalgie per un sindacato che torni al proprio mestiere e vorrebbe rinchiuderlo in una gabbia contrattualistica. E sulla «sinistra», contro i teorici dell'autonomia del politico, «apprendisti stregoni della rivoluzione dall'alto... strana commistione tra una lettura dogmatica di Lenin e uno statalismo hluminista». L'unica autonomia cui tiene è quella sindacale, che può essere garantita realmente solo da una specifica capacità di elaborazione culturale e politica e dall'unità delle tre confederazioni. Di qui i suoi richiami insistenti alla necessità di una nuova cultura operaia e industriale di massa: affinché «da sfruttati a produttori» non resti solo il titolo di uh libro. Luciano Genta BrunoTrentin

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