Gli scrittori piemontesi in cerca dell'italiano

Gli scrittori piemontesi in cerca dell'italiano Da Alfieri a Pavese attraverso Faldella Gli scrittori piemontesi in cerca dell'italiano Giovanni Faldella ZIBALDONE Edizione a cura di Claudio Marazzini Centro Studi Piemontesi, Torino pagine XXVIII-245,32.000 lire £1 CAPIGLIATO» fu Giovanni Faldel« |3 la non certo per stile di vita. Il cena^ colo di giovani scrittori e di autori in erba raccolti intorno ad una società letteraria allora di sapore goliardico (la Dante Alighieri, nata nel 1863). e che il Faldella aveva battezzato Giovane letteratura torinese, comprendeva cauti e costumati piemontési: Giuseppe Giacosa. Giovanni Camerana. Roberto Sacchetti. Giuseppe Cesare Molineri. Un gruppo insomma molto diverso dalla bohème lombarda. La turbolenza del Faldella fu invece stilistica: la sua. una anormalità espressiva, un linguaggio pirotecnico, una agitazione espressionistica tra i due poh di tensione entro cui. con o senza moderazione, gh scrittori regionali dell'Ottocento s'erano mossi tutti: vale a dire, il purismo toscano e il dialetto natio. Il periferico pativa il toscano. Partiva da una estraneità che lo portava ora all'adesione totale, ora alla resistenza più scaltrita. Tante vero che si potrebbe scrivere, con tutta legittimità una storia della prosa letteraria italiana prendendo a principio direttivo le difficoltà di adattamento degli scrittori regionali a calarsi e riconoscersi in un sistema linguistico-espressivo ad essi naturalrnen te estraneo : il toscano. Il periferico parte dal noto per giungere all'ignoto: lombardo e francese per Manzoni, piemontese e francese per Alfieri. Quel viaggio tormentoso approda ogni volta a soluzioni diverse, spesso ^comparabili o antitetiche. E talora è partito da un effettivo disamore per l'inamabile e scolorito italiano comune (scolastico, burocratico e giornalistico) che era in via di formazione nel secondo Ottocento, da una insofferenza insomma per il piatto conformismo dilagante della lingua «corrente e alla mano» di base fiorentina. E' il caso di Faldella, che già trovava grigi gli scrittori di fine Settecento, i quali, dice, «per sfrancarsi appunto delle inconsul- te fiorentinerie» (i nomi erano i Verri il Beccaria e gh altri autori del Caffè) «scheletrirono la lingua italiana». Si salvava chi aveva cambiato aria, s'era spiemontizzato, come il torinese Giuseppe Baretti, e per coraggio in fatto di lingua s'era fatto scrittore «prepotente, torrentizio». Quanto al Piemonte, le radici di tale estraneità di tale mistura di fede-sfiducia, odio-amore nel toscano, affondano proprio nel Settecento (ne ha parlato di recente Carlo Dionisotti in un articolo su Piemontesi e spiemontizzati), e arrivano quasi ai giorni nostri. Ancora Cesare Pavese scriveva a un suo illustre recensore: «Il piemontese impara l'italiano come lingua morta e quindi con una discrezione che gl'impedisce di maltrattarla come un jeune ruffian sa maitresse». Una lingua straniera, che i piemontesi non sanno, e che imparano logorando grammatiche e stancando vocabolari, per dirla con Alfieri. Alfieri è stato il tipico piemontese tormentatore di dizionari e di testi di buona lingua. Un illustre autodidatta. L'altrettanto illustre conterraneo di Pavese, Beppe Fenoglio, sperimentava poi tutte le difficoltà deh'autodidatta alla ricerca di una lingua, dopo tenaci corpo a corpo contro e con una lingua estranea. E Pavese fu altro accanito in fatto di lingua: postilla il vocabolario del Tommaseo comprato sin da giovane età compila minuziosi appunti di lingua e dizionarietti dei smonimi su scartafacci d'uso privato; studia rabbiosamente il vocabolario del purista Fanfani. 3 II superbo Alfieri umilmente, in un suo personale quadernetto di appunti, annotava giorno dopo giorno frasi o modi di dire o «giri di lingua» del venerato toscano, spiegandoseli con quello che sapeva, con parole francesi o piemontesi. Ma gli Appunti di lingua dell'Alfieri non sono un repertorio che serva allo scrivere. Si tratta di appunti utili al parlare di tutti i giorni (termini di cucina, arti e mestieri, il gioco, i cavalli ecc.). Privato, ma al servizio dello scrivere invece, è il grosso manoscritto intitolato Zibaldone (lo conserva la Biblioteca Civica di Torino) di Giovanni Faldella, che ora vede la luce grazie alla lodevole iniziativa e l'attentissima cura di un giovane studioso. Claudio Marazzini. Si tratta di una grande rubrica alfabetica in cui Faldella deposita, sotto forma di voci simili a quelle di un dizionario, una enorme quantità di materiali letterari, eruditi e linguistici frutto delle letture di un ventennio: letture di libri in «bella lingua», di classici latini, e di scrittori dell'Ottocento: del Giusti soprattutto, considerato ai suoi tempi maestro nel saper tagliare l'abito finalmente dì tutti i giorni, e non più sempre e soltanto quello di gala, buono per il giorno di festa (la prosa togata dei Giordani. Botta, Colletta ecc.). Giusti (e nello Zibaldone ha grossa parte) è colui che avrebbe saputo indicare le movenze della nuova lingua democràtica, «briosa e popolaresca», di cui le patrie lettere avevano bisogno. Eppure l'esito delle pagine di Faldella, sappiamo, non fu quello democratico alla Manzoni, che pure lui tenne in gran conto il Giusti. Aristocratico della scrittura (al pari dei conterranei Alfieri. Pavese. Fenoglio), dava nel pastiche mistilingue, mischiando nella sua prosa vocaboli del Trecento, del Cinquecento, della parlata toscana e del piemontese. Lo Zibaldone è il repertorio personale che lo aiuta a confezionare questa miscela. Lo ha usato come «ferro del mestiere» per scrivere romanzi e novelle (di qui Futilità deU'edizione del Marazzini). Faldella caverà dagli scartafacci rubricati il mosaico macaronico della sua prosa variegata. Reminiscenze congeline, preziosità paesane del Giusti, castigatezze classico-linguaiole munte dal Boccaccio giù giù sino ai puristi dei tempi suoi sono gh ingredienti messi in opera nella sua prosa caleidoscopica e depositati nelle sudate carte dello Zibaldone. Queste carte sono là premessa indispensabile alla confezione, e all'esistenza stessa della prosa del Faldella. Siamo nella linea di un altro scapigliato lombardo, il Dossi, che dichiarava di preferire «la lettura di un vocabolario a quella di un romanzo» (e si annotava liste di vocaboli e sottolineava le voci del Vocabolario usuale tascabile). Nello Zibaldone Faldella ci fa valutare megho il rapporto difficile che gli autori dell'Ottocento (e non solo i cosiddetti «scapigliati») e del primo Novecento hanno avuto con la tradizione nell'atto di «farsi» scrittori popolari Ce lo fa valutare quasi per assurdo lui che «popolare» non fu che nelle intenzioni (si pensi all'imbarazzo e ah'irritazione dei suoi contemporanei costretti, per capirlo, a porre mano al dizionario). Eppure, non a caso, lo Zibaldone fa venire a mente il Pavese che nei suoi inediti appunti di lingua va alla ricerca non tanto di parole toscane appropriate, per risalire ad una lingua estranea e libresca, da imparare come le lingue morte, ma cerca nel Vocabolario (proprio come aveva fatto Manzoni col dizionario milanese-italiano del Cherubini o con le minute Postille alla Crusca) l'equivalenza tra il nativo e il nazionale, tra il dialetto e la lingua. Vuole assecondare quel programma di popolarità che intendeva rifondere vita ad una lingua letteraria impopolare: riagganciare la parola autorizzata al sostrato regionale, con Fanfani alla mano e il piemontese all'orecchio. Per questo le voci dello Zibaldone che più ci attirano sono quelle della convergenza tra dialetto e linguaggio letteràrio, tra punto di partenza (piemontese) e punto di arrivo (toscano). Ci fanno venire in mente il compiacimento di quel Manzoni lettore del Vocabolario, nella fase toscano-milanese che preparò i Promessi sposi. Tormentatori di dizionari questi piemontesi! E tanti (Alfieri, Pavese, Faldella) con il proprio dizionario privato nel cassetto. Gian Luigi Beccaria Vittorio Alfieri Giuseppe Giacosa

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