In anteprina «Papaia», storia di furti e di violenza nel Centrafrica

In anteprina «Papaia», storia di furti e di violenza nel Centrafrica In anteprina «Papaia», storia di furti e di violenza nel Centrafrica Il libro npn ha risvolti politici, non affronta il problema dei rapporti fra l'atroce Bokassa e l'estetizzante Giscard d'Estaing, anche se i due nomi affiorano sovente appaiati, e lo spietato, cannibalesco Bokassa allude in continuazione al suo caro parente Giscard. Tutto il romanzo è imperniato sulla scomparsa di un diamante grosso come un ciottolo, più grande del Kohinoor e di altri famosi diamanti, da fare la ricchezza senza limiti per chi lo possiede. Lo possedeva Bokassa, ma qualcuno glielo ha rubato. Emergono così dal buio di esistenze miserabili i protagonisti della vicenda, uomini insabbiati, contrabbandieri di diamanti, donne europee ed africane senza più speranza. ( \ Dino Ruffo è il perno attorno al quale vortica la feroce vicenda, e senza saperlo egli diventa la lepre che sa dov'è nascosto il Bedel, cioè il gigantesco diamante, inseguito dal feroce mastino Bokassa accompagnato dalla sua scorta sanguinaria. Ovunque passano i tetri figuri si lasciano dietro villaggi incendiati, uomini, donne, vecchi e bambini squartati, un'orgia di sangue che pare fine a se stessa tanto, essa, quasi sempre, appare inutile. Legato ad un contrabbandiere francese, Roger, l'autore ne diventa complice, perché il ladro del Bedel è proprio Roger. Nell'evoluzione del racconto, ci si avvede che tutti sono ladri a incominciare da Bokassa, perché rubano nella Taillerie Natìonale i diamanti che dovrebbero essere proprietà dello Stato. Ed i dia¬ manti che Giscard d'Estaing ha ricevuto in dono da Bokassa provengono da un furto ignobile. Ma pare che, come Vespasiano, il presidente francese pensi che «non puzzano». Difficile raccontare anche sommariamente l'azione di questo romanzo tramato su fughe, inseguimenti nella foresta, torture infinite, massacri. Vi si leggono pagine che provocano la nausea, come quando il protagonista viene purgato quasi a morte per fargli rendere brillanti che Bokassa immagina abbia ingoiato; altre che provocano il raccapriccio, come il corpicino sventrato del ragazzino negro che faceva da domestico-mignon a Roger. La lunga fuga da Bangui, la capitale, fino ad un villaggio sperduto nella boscaglia, non lascia attimi di respiro, tutto si svolge come nel delirio dì un sogno allucinato, fra insidie d'ogni genere (sanguisughe, serpenti, elefanti atterriti) coi poliziotti di Bokassa alle calcagna. L'imperatore stesso prende.parte all'inseguimento, alle torture dei prigionieri, avido di diamanti, di cui il Centrafrica è ricco, ma anche sanguinario per vocazione. La distruzione del villaggio in cui il protagonista ritrova moribondo l'amico Roger, e dove s'impadronisce del Bedel (il nome del diamante deriva da quello deU'imperatore, Jean Bedel Bokassa) e l'internamento nella prigione di Bangui, dove gli sarà amputata la mano destra come punizione, sono raccontate con vivézza impressionante, sì che par di sentire i gemiti dei feriti, le urla dei seviziati e torturati, il rantolo dei moribondi, il crepitare degli incendi Un po' meno convincenti le ultimissime pàgine, quando il protagonista e Angele, la sua donna africana che lo ha salvato ed arricchito, vagano davvero sperduti, ormai personaggi spenti, per le vie di Parigi col quasi invendibile Bedel da piazzare. Francesco Rosso «Don't. Just wait. The medico is coming», disse. D'istinto, aveva parlato in inglese. Poi mi accompagnò la mano sul petto e ve la depose con delicatezza, come se stesse sistemando nel letto un bambino prima di rimboccargli le coperte. «Madame Feletti, è pregata di parlare francese». Era la voce di Dobozendi: il brontolio di un tuono. Lei si girò e vidi il colonnello davanti alla scrivania, al cui bordo stava appoggiato, in una posizione che gli spingeva ancora più in fuori il ventre enorme. Contro la luce della lampada accanto a lui, quel faccione sembrava ancora più nero. Si picchiava il palmo della sinistra col frustino che stringeva nella destra. Era serio e non mostrava i dentinel suo sinistro sorriso. Poco discosto, come paralizzato da un fulminante incantesimo, il sergente Ngara stava impalato sull'attenti nel puntò esatto in cui l'avevo visto l'ultima volta. H suo sguardo, altrettanto immobile, vitreo quasi, era puntato verso la porta all'estremità della panca sulla quale ero disteso. «Gli stavo dicendo soltanto che sta per arrivare el mèdico. H dottore, insomma». •Linfirmier», corresse subito il colonnello. «Le propre infirmier militaire de Sa Majesté l'EmpereuT». Arrotondò le r esageratamente, riempendosi la vasta bocca con quelle parole : la sua reazione all'inglese dimadame. Intanto, come se fosse stato evocato, Sua Maestà in persona fece il suo ingresso nella stanza. Stavo guardando Dobozendi e Ngara, infatti, quando mi parve di assistere a un fenomeno stranissimo. Anche se in maniera diversa, tutto fremiti e tremolìi di adipe il primo e tutto guizzi nervosi il secondo, i due all'improvviso si riscossero come due marionette messe di colpo in movimento dà una scarica elettrica per ritrovarsi, alla fine di tutta una serie di gesti quasi automatici, l'uno accanto all'altro piegati letteralmente in due. con le mani puntate sulle ginocchia e il capo sporto in avanti, come due rassegnati condannati che porgono la testa al boia. Era un inchino. Guardai verso la porta. Preceduto da quelle due irreali creature, il pigmeo barbuto e la scimmia con i favoriti bianchi, che avanzavano tenendosi per mano, saltellando e squittendo come topi felici, entrò l'uomo rosso e lucido che mi aveva già abbacinato al suo irruento ingresso in quella stessa stanza e subito dopo stordito con un colpo di bastone sull'osso frontale. Si fermò sulla soglia e ci guardò, ma il suo sguardo mi sfiorò appena per andare a posarsi su Carmen. Quando l'ebbe contemplata a lungo, nel silenzio generale, le si avvicinò, le prese una mano e si chinò a deporvi un goffo bacio. Sua.maestà Jean Bedel Bokassa Primo era in vestaglia rossa e pigiama anch'esso . rosso bordato di filino bianco, dai quali la lampadina del soffitto e le due lampade della scrivania sembravano evocar fiamme. In tanto rutilio, si udì lo schiocco delle labbra imperiali sul dorso candido della mano stretta tra le due zampe. Non era alto quell'imperatore in vestaglia, quell'ex tiratore scelto di prima classe della Coloniale, ex generale ed ex presidente a vita autoincoronatosi infine imperatore, quell'ex soudard, il soldataccio, come lo chiamava un generale più vero di lui, De Gaulle, che lui invece chiamava mon pére, come un qualunque hutu del Burundi chiama il bianco, non era alto né imponente ma nero e lucido come tutti gli m'bakà, il gruppo etnico di minoranza al quale appartenevano lui e tutta la sua fida guardia imperiale. Còme il colobo, anche lui aveva là faccia incorniciata da una barbetta corta che dalle fedine scendeva fino al mento, solo che la sua non era bianca ma nera già spruzzata dei primi peli bianchi Su quella faccia prognata il naso s'incuneava com'è una zeppa triangolare sino alla base della fronte prò-" ducendo una serie di pieghe, due delle quali, più accentuate, s'inarcavano sino agli zigomi per ripiegare poi verso gli angoli della bocca larga. Solo le labbra, quasi sottili sotto gli ineffabili battetti, certamente non tumide, tradivano forse la crudeltà di cui aveva dato sostanziose prove, perché infatti sotto l'ondata di pieghe aggiuntive che il freddo sorriso anche gli produceva sul viso, gli occhi sembravano invece spenti. Evidentemente amava sentirsi in alta uniforme sin da quando metteva i piedi giù dal letto perché sul risvolto della vestaglia rossa spiccavano, uno per lato, due medaglioni dorati che quanto a pataccheria non erano da meno di quelli sfoggiati dal colonnello Dobozendi. Nella sinistra stringeva il manico d'avorio del suo «sìmbolo della giustizia», come amava definire il proprio bastone, col quale in sostanza aveva cercato di srjaccarmi il cranio. Mi misi dolorosamente a sedere e tra un , crocchiar d'ossa poggiai i piedi a terra per tirarmi su con uno sforzo. Quindi mi rivolsi verso quel fondatore d'imperi te dinastie ed eseguii il prescritto menino, anch'io piegane domi in avanti e anch'io offrendo il mio occipite; coraggiosamente, devo dire, visto che Sua Maestà brandiva ancora quel suo simbolo della giustizia. «Maestà», bisbigliai. E provai una fitta al centro del capo. Corradino Ruffo Bokassa . : y,,

Luoghi citati: Bangui, Burundi, Centrafrica, Parigi