Nel ghindoly di Bertolazzi non c'è né fuso né oscenità

Nel ghindoly di Bertolazzi non c'è né fuso né oscenità Un'antologia sul teatro italiano dell'Ottocento Nel ghindoly di Bertolazzi non c'è né fuso né oscenità A cura di Siro Ferrone IL TEATRO ITALIANO V: LA COMMEDIA E IL DRAMMA BORGHESE DELL'OTTOCENTO Tre tomi di LXIX-280 pagine 491 pagine, 461 pagine 25.000 lire Einaudi Torino DALLA maggior parte delle antologie del teatro dell'Ottocento questa si differenzia per la specificità della scelta, che fa posto esclusivamente a commedie e drammi borghesi (non senza giuste aperture al vaudeville con Ferravilla e alla farsa con Scarpetta); per l'alto numero delle opere (quattordici, tutte date integralmente), la cui serie è aperta da L'aio in imbarazzo di Giraud (1807) e si chiude con Come le foglie di Giacosa, rappresentata per la prima volta il 31 gennaio 1900 al Teatro Manzoni di Milano; per la ricca e precisa documentazione su organizzazione, messinscena, recitazione e teorie del teatro, contenuta nelle appendici dei tre tomi. Nell'introduzione Siro Ferrone si attiene al principio di fare la storia del teatro ottocentesco in stretto rapporto con le vicende politiche e sociali, dall'età napoleonica alla Restaurazione, dagli anni delle guerre d'indipendenza al regno di Umberto L Daremmo probabilmente un consenso più cordiale al suo discorso critico se non si urtasse troppo spesso in un linguaggio pretenzioso e infarcito di infelici ghiribizzi metaforici. Ci tocca di leggere, tanto per fare qualche esempio, che Giacometti e Bersezio «tentarono ugualmente... di tenere acceso il riflettore del teatro su sfondi-che la clausura dei salotti aristocratico-borghesi di Ferrari minacciava di perdere definitivamente» o che, in Cavalleria rusticana, «l'assenza di qualunque commento di raisonneurs, rischioso anche in un'atmosfera ai confini dell'esotico, fu bilanciata dalla riduzione dei temi economici a vantaggio di quelli sentimentali e religiosi». Purtroppo nell'uso e abuso di siffatte preziosità il Ferrone non sta da solo: molti di coloro che oggi maneggiano la penna o direttamente la macchina da scrivere per fare gemere i torchi scrivono così e peggio, e può darsi che solo un gusto superato di umanista porti a rifiutare queste novità. Ma con l'umanista reagisce anche lo storico della let- teratura, che ha da osservare quanto resti ridòtto nella Introduzione l'esame dei rapporti del teatro con altri generi letterari o, comunque, con opere che al teatro sono più o meno legate. Tra il Verga drammaturgo e il Verga narratore le implicazioni son più strette e degne di considerazione di quanto non risulti qui; e, per ridurre gli esempi, ci si aspetterebbe che almeno il nome di Paolo Valera venisse pronunciato per la prima e più notevole parte di El nost M ilari: La povera ^ gent. Sarebbe pedanteria discutere la scelta, come si fa troppo spesso con antologie d'ogni specie. Sorvoliamo dunque anche sulla esclusione di Gallina, che pure ci sembra un po' strana. Per non pretendere poi quello che il libro probabilmente non intende di dare, circa la bibliografia dei singoli autori diciamo solo che in qualche caso non è aggiornatissima. • % Una parola almeno però sulla cura data ai testi e alle note. Il Ferrone dichiara di avere riprodotto sempre le prime edizioni, e, qualora questo non sia stato possibile, le stampe più vicine alla data della prima edizione. E il criterio è giusto, trattandosi di opere di teatro. D'altra parte le note sono sobrie, ma generalmente esaurienti. In qualche caso tuttavia — e come campione di particolare interesse scelgo El nost Milan — all'editore sarebbe toccato di fornire un testo meno impreciso nella grafia e nella punteggiatura: stampare non sa le doma ma sa l'è doma; interpungere non Vedi tutt'i dì el to papà? te set? ma Vedi tutt'i dì el to papà, te set?. Ma nel caso dell'opera di Bertolazzi, tanto viva che in questa stagione 1979-1980 tiene il cartellone al Lirico di Milano da mesi con un tutto esaurito, altra attenzione andava messa nelle note. Molte locuzioni dovrebbero essere spiegate forse anche a un milanese di oggi, il quale, per la progressiva erosione e trasformazione del dialetto, rischia di non distinguere bene, per esempio, il significato di vuj verbo e vuj interiezione (e Bertolazzi fa un uso continuo specialmente della interiezione); si chiede che cosa vuol dire l'è beli e a moeuj, e l'affine sem a moeuj, ecc. Ma, milanese o no, il lettore non accetta di sicuro spiegazioni date troppo ad orecchio: can de Veffa tradotto «cani da letto»; la frase, mezzo milanese e mezzo bergamasca, ghe l'ho a mi el ghindoly spiegata «l'ho io il fuso (con allusione oscena)», mentre non c'è né fuso né oscenità: ghindoly infatti è l'arcolaio, e con questa immagine il bergamasco Bartolì allude alla ragazza che può tenere tra le braccia e cullare come un bambino o portare in giro; mi buj (da bui = bollire, che significa anche scoppiare di rabbia) interpretato «va' a farti friggere»; mangia cadenna che non è tanto «masticare amaro» quanto mordere il freno. Per l'esattezza però testo e commento di El nost Milan non sono a cura del Ferrone, ma di un suo collaboratore. Ettore Bonora Carlo Bertolazzi

Luoghi citati: El, El Nost Milan, Milano, Torino