Canetti nella lingua le radici di un apolide di Giovanni Raboni

Canetti nella lingua le radici di un apolide Memorie d'infanzia dello scrittore bulgaro, autore di «Massa e potere» Canetti nella lingua le radici di un apolide "ON è necessario essere profeti per prevedere Elias Canotti LA LINGUA SALVATA Adelphi, Milano 365 pagine, 10.000 lire n; che questo libro segnerà l'inizio del vero rapporto tra Elias Canetti e i lettori italiani Anche se le sue opere più cospicue — il romanzo Die biendung («Auto da fè») e il saggio Masse und macht («Massa e potere») — sono stati tradotti in Italia da parecchi anni (il primo addirittura nel '67, il secondo nel 72), la sua figura, fino a questo momento, ha giocato un po' a rimpiattino con il nostro pubblico e la nostra critica, occultandosi e sfumando, volta a volta, tra la scoraggiante etichetta del prosatore importante e difficile e il mito fastidiosamente generico del «grande scrittore mitteleuropeo». Più efficace e invitante, semmai, come primo approccio a una personalità così grandiosa e complessa, poteva risultare la bella scelta di taccuini (cioè di pensieri, aforismi, paradossi, ipotesi narrative ecc.) ordinata dallo stesso autore e' pubblicata in Italia da Adelphi un paio d'anni fa constitelo La prò-' vincia dell'uomo; ma non mi sembra che siano stati in molti ad accorgersene. Ben venga, dunque, questa Lingua salvata, il cui sottotitolo, Storia di una giovinezza, ci spiega subito di che cosa si tratta, e la cui straordinaria affabilità e trasparenza (ma una trasparenza che nasconde — o meglio rivela e rende totalmente leggibile, in verticale — una non meno straordinaria profondita) sembra fatta apposta per incoraggiare il lettore eventualmente intimidito e titubante, inducendolo magari a sospettare che anche le altre opere di Canetti potrebbero non essere così osti-, che, così impenetrabili.. Auguriamocelo. Ma stiamo, intanto, a queste affascinanti .memorie di infanzia e adolescenza (Canetti è nato nel 1905, e il racconto si arresta al maggio del 192i). E cominciamo con l'osservare che già i dati oggettivi della biografia dello scrittore sono, co1 me si suol dire, emblematici o — come si diceva più simpaticamente una volta — tali da costituire di per se stessi «un romanzo». Nato in Bulgaria, ma in una famiglia (per parte sia paterna che materna) di «spa-1 gnoli», cioè di quegli ebrei che, cacciati nel '500 dalla Spagna, si sparsero poi in vari Paesi dell'Europa centrale dalla Turchia che li aveva originariamente accolti, Canetti impersona nel più singolare e suggestivo dei modi il destino dell'apolide, dello, sradicato che ha, in realtà, saldissime radici (o, per essere più esatti, può mettere saldissime radici) ovunque. Tutte le possibili .patrie hanno, in fondo, le medesime chances di diventare la sua patria; e, di fatto, la storia che queste pagine raccontano è, fra l'altro, un susseguirsi di innamoramenti del piccolo e poi del giovane Elias per i luoghi (e dunque le culture, i modelli sociali, le lingue) in cui le vicende della sua famiglia lo portano a vivere: la cittadina bulgara in cui nasce, e dove coesistono, intrecciate, sedimentate, tracce di Spagna e d'Oriente; e poi, via via, Manchester, Vienna, Zurigo... Mi chiedo fino a che punto questa disponibilità appassionata, questo fuoco di fila di scoperte, questa capacità inesauribile di apprendimento e identificazione coincidano con l'idea, con lo «specifico» della cultura mitteleuropea In effetti, esse non implicano alcuna adesione a un ideale «sovrannazionale», né alcuna celebrazione, in positivo o in negativo, del ruolo di Vienna e del destino asburgico; il punto verso il quale si muovono è piuttosto quello di un continuo, e continuamente aperto, «volontariato» o «spontaneismo» nazionale: si può essere spagnoli o turchi o inglesi o austriaci a seconda delle circostanze, dell'età, dei movimenti della propria intelligenza e del proprio cuore... Vienna, Vienna Vienna non è, per il giovane Canetti, né un mito né un ■„ fulcro, ma semplicemente una delle tante tappe della sua esperienza, uno dei tanti oggetti del suo amore; e se, alla fine, la lingua che sceglie come propria, la lingua «salvata», è il tedesco, è soprattutto, credo, perché è quella che ha imparato con più fatica e che è legata in modo più forte, esaltante e doloroso alla figura di sua madre. Non lingua madre, dunque, ma — nel più letterale dei sensi — la lingua della madre; e anche per questo, forse, il rapportò dello scrittore Canetti con la lingua, con le parole comuni e sacre della lingua, è quello stupendamente descritto in un frammento di La provincia dell'uomo: «...Nutro anche un altro tipo di rispetto per le parole. La loro integrità mi è quasi sacra. Mi ripugna ferirle e lacerarle... Non mi piace lasciarmi coinvolgere con esse in avventure perverse. Quanto di inquietante è contenuto "nelle" parole, il loro cuore, non voglio strapparglielo come se fossi un sacrificatore messicano; questi modi sanguinari mi sono odiosi». Chiedo scusa per la specificità apparentemente eccessiva della citazione; ma il brano mi sembra rivelatore, e vorrei inoltre segnalarlo, come argomento di riflessione, a quanti sono convinti (nella scia, per esempio, del Joyce di Finnegarfs waké) che l'essenza della letteratura sia proprio nella creazione di «nuove» parole.. Torniamo a La lingua salvata. Si sarà capito che. accanto a quella della lingua (o delle lingue), l'altra vicenda essenziale raccontata nel libro è il rapporto del bambino e, soprattutto, del ragazzo con la madre: rapporto di un'intensità, oserei dire di una violenza, che ha pochi equivalenti nella letteratura contemporanea. Rimasto orfano di padre all'età di sette anni, Canetti identifica immediatamente nella madre, donna di eccezionale intelligenza e temperamento, sia l'oggetto privilegiato d'amore sia, in un certo senso, l'avversario (il «padre») col quale misurarsi e sul quale, alla fine, trionfare. Passione e gelosia L'intero libro è, fra l'altro, il resoconto spietato di questa passione (che si esprime in una quasi selvaggia possessivita e gelosia) e di questa tremenda, struggente colluttazione. Spietato perché tutto avviene.e viene riferito alla luce del sole, in superficie, còme se l'inconscio non esistesse o, meglio, fosse soltanto un rifugio, un alibi, un miserabile trucco di chi non osa vedere la realtà; non a caso, il termine stesso di «inconscio» è usato una sola volta, proprio all'inizio del libro, e con questo secco commento: «Io evito come la peste questa parola che ha perduto ogni reale significato grazie all'uso smodato che se ne fa». Ma oltre alla spietatezza, alla lucidità dura e abbagliante con cui questa vicenda è descritta in ogni sua fase, incarnazione e immagine, bisogna ricordare la pacata, luminosa tenerezza che intride l'intera narrazione, quella trasparenza-profondità di cui ho parlato all'inizio e che mi sembra la fondamentale condizione stilistica del libro. E, ancora, la sua grande ricchezza testimoniale, che né fa una vera e propria miniera di notizie e impressioni sulla vita sociale e culturale europea negli anni a cavallo della prima guerra mondiale (colte e riferite con l'innocenza, ma anche l'infallibile sagacia, di un fanciullo, poi di un adolescente). Infine, per non abbandonare l'ipotesi o augurio da cui siamo partiti, cioè che La lingua salvata possa indirizzare i lettori verso le altre opere di Canetti, sinora trascurate o temute, vorrei suggerire che è possibile cogliere qui l'origine dei temi essenziali — l'analisi del potere e la «polemica» contro la morte — che costituiscono la «trama» di Masse und macht, il saggio alla cui preparazione e stesura Canetti ha dedicato vent'anni della sua vita e con il quale, come egli stèsso ha scritto, è riuscito ad «afferrare questo secolo alla gola». Giovanni Raboni