Beckett e tutto alla fine è solitudine

Beckett e tutto alla fine è solitudine Una nuova opera del drammaturgo e una biografia considerata «sacrilega» Beckett e tutto alla fine è solitudine In «Compagnia» l'autore traccia il ritratto di un uomo supino, che non ha più neppure un nome e finisce per rinunciare anche alle parole Nello spazio chiuso nessun'altra presenza umana, nessun oggetto-feticcio PARIGI - A poche settimane di distanza sono usciti a Parigi l'ultimo lavoro di Samuel Beckett, presso le Editions de Minuit, e la versione francese, pubblicata da Fayard, di una biografia che l'americana Dzirdre Bair ha consacrato allo scrittore irlandese. Il testo di Beckett, che s'intitola Compagnia, è smilzo e denso, scabro ed essenziale si potrebbe dire montalianamente. La biografia della Bair, che le è costata sei anni di lavoro, è invece ponderosa (600 pagine) e prolissa: gonfia di aneddoti, ma non arriva al nocciolo. Gli amici di Beckett, a cominciare dal suo editore francese Jerome Lindon, impugnano la validità di questo lavoro, che dicono zeppo di errori e inesattezze, ma soprattutto ne considerano sacrilega l'intenzione, il fatto di aver violato il muro di silenzio con cui lo scrittore misantropo ha cercato da sempre di proteggersi, lui che non si è mai confidato a nessuno, che non concede interviste, che evita i giornalisti e i personaggi ufficiali come la peste, tanto che quando gli hanno dato il Nobel non è voluto neppure andare a riceverlo di persona. L'autrice si difende da queste accuse asserendo che Beckett le disse di non volerla «né aiutare né impedire». Tuttavia non le ha fatto neanche una mezza confidenza e si è rifiutato perfino di leggere il manoscritto. Così la Bair è stata costretta ad attingere ad altre fonti, in particolare a un'importante corrispondenza di Beckett con il letterato irlandese Thomas McGreevy, che gli fu amico per trent'an- ni. Segnaliamo pertanto questa grossa biografia perché è la prima e contiene molte informazioni sulla vita privata dello scrittore, la sua adolescenza tormentata, i suoi amori, la sua nevrosi, i suoi esordi difficili, i suoi rapporti con Joyce, pur avvertendo che va letta con molta circospezione. Compagnia è un piccolo gioiello, scritto in inglese, poi restituito in un limpido francese dall'autore bilingue, che aveva già tradotto o scritto direttamente in francese la maggior parte delle sue opere. Mai come in questo breve «poème en prose» Beckett si era tanto avvicinato alla perfezione. E' il libro della solitudine totale e pienamente consentita. In uno spazio chiuso un uomo — anonimo — giace supino nell'oscurità. Solo, perfettamente ignudo, le gambe congiunte, i piedi aperti ad angolo retto, le mani intrecciate sul pube, come un «gisant» dei monumenti funebri medievali. Una voce gli giunge nel buio, fievole, sale lentamente fino a un debole grado di intensità, poi torna a rifluire lentamente fino a non poter più essere percepita. Nessun altro suono, se non quello del proprio respiro, arriva all'orecchio del giacente. Quando la luce si amplifica il buio si rischiara, quando rifluisce torna a farsi denso. La voce però è puramente immaginaria. L'uomo supino inventa la voce, e chi l'ascolta, e se stesso: «Inventa se stesso per tenersi compagnia». À meno che la voce, suono allo stato puro, sia destinata a «mettere al supplizio un affamato di silenzio». La voce sgrana nell'oscurità ricordi del passato. «Sei nato, dice, un Venerdì Santo dopo un lungo travaglio» (Samuel Beckett è nato il Venerdì Santo, 13 aprile, 1906). Ed pcco profilarsi l'immagine di un bambino, che cammina sulla strada maestra tenendo la madre per mano. Guarda il cielo azzurro oltre la cresta della collina e chiede alla madre se il cielo non sia molto più lontano di quanto non pare. La madre tace. Lui riformula mentalmente cento volte la domanda, poi la ripete. Spazientita la madre si stacca dalla sua mano e gli dà una risposta dura, indimenticabile (qui si affaccia l'ombra di May Beckett, madre possessiva e autoritaria, con cui Samuel ebbe un rapporto intenso di odio-amore. Quella madre che non capiva il piccolo Sam e lo picchiava non tanto per cattiveria quanto per inculcargli il senso del dovere, che poi tentò di contrariare la sua vocazione letteraria, che non capiva perché perdesse tanto tempo a scrivere e a ubriacarsi nei pub). Il «caro volto amico» del ' padre .(il buon Bill Beckett, pacifico e prosaico) compare a sua volta, evocato dalla voce: il bambino è in cima a un alto trampolino, esitante, e il padre alzando gli occhi verso di lui da sotto, fra le onde, lo invita a tuffarsi, gridandogli «coraggio!»). Un giorno il bambino è scappato al levar del sole, si arrampica sul fianco della collina, si nasconde in un nido di ginestre. Dal suo nido, se aguzza lo sguar¬ do fino ad aver male agli occhi, vede oltre il mare il contorno fluido di alte montagne. Quando rincasa, al tramonto, lo mandano a letto senza cena. La voce dà corpo anche ad altre fugaci ombre femminili. Una donna curva su una culla. Dei seni visti di scorcio. H fruscio di una frangia di lunghi capelli neri. .Ormai il bambino si è fatto adulto. Cammina ad occhi chiusi su una strada diritta, e quando non sono chiusi li ha fissi a terra. Vede solo i suoi piedi, il suolo scorrer via sotto i suoi piedi, dal giorno in cui ha deciso di tener definitivamente la testa bassa. Poi l'adulto diventa vecchio. Avanza a piccoli passi pesanti su uno stretto sentiero di campagna. Ascolta il rumore di ciascuno dei suoi passi nel silenzio, e mentalmente li aggiunge alla somma dei precedenti. Si ferma in riva a un fosso. Traduce "i passi in metri. Il viandante è quasi al termine del suo viaggio. Che cosa si potrebbe inventare d'altro per «tenersi compagnia»? Forse un sorcio morto, morto da molto tempo? O un odore nauseabondo? Oppure si potrebbe intraprendere nello spazio chiuso un nuovo viaggio a quattro zampe? Ora l'uomo rampa a quattro zampe: mani e ginocchia formano un rettangolo, quando avanza la mano e il ginocchio destro, il rettangolo si trasforma in rombo. L'uomo continua a rampare finché cade. Rampa di nuovo, torna a cadere come un Cristo, poi giace immobile. Ansima a occhi chiusi nel buio. Cerca di superare la delusione di aver rampato invano. Perché non giacere semplicemente a occhi chiusi nel buio e rinunciare a tutto? «Farla finita con tutto, con quel rampare derisorio e con le vane chimere». L'uomo è di nuovo supino nell'oscurità, e la voce gli dice che mai più si rimetterà a sedere per abbracciarsi le ginocchia e chinar la testa fino a non poterne più. A capo riverso tenterà invano di ritrovare il filo della favola, finché le parole si esauriscono una ad una, e con esse la favola dell'altro che affabula nel bufo per tenergli compagnia. A conti fatti, è meglio così, rimanere solo. Beckett ha toccato il fondo della desolazione. E' vero che si era detto la stessa cosa quando venne rappresentata «Fin de partie»-, la stessa cosa dopo la pubblicazione di «Comment c'est», e dopo quella dell' «Innomable». Ma in «Fin de partie», Hamm. il protagonista cieco e impotente, dispone ancora del servo Cloy, che gli presta le sue mani e il suo sguardo. E il personaggio-larva di «Comment c'est» non rinuncia a rampare: arranca penoso, ma incessante verso oriente, E il miserabile relitto umano senza braccia e senza gambe che è «l'innominabile», ha ancora la soddisfazione di esser estirpato una volta in settimana dal recipiente in cui sta imputridendo, da una mano femminile che lo ripulisce e gli dà affettuosamente un osso da succhiare. L'itinerario di Beckett alla ricerca della solitudine assoluta parte da molto lontano, da «more pricks than kicks» (1935> e da quel neghittoso Belacqua che gli fu ispirato da Dante, prototipo della creatura beckettiana, che aspira già alla beatitudine della posizione orizzontale. Come vi aspira Murphy, vissuto e morto con la tentazione di vivere disteso: «fuòri dal mondo». Nei primi lavori di Beckett però i derelitti si consolano affiancando le loro solitudini. Spesso formano coppie inseparabili nel bene e nel male: Moran padre e figlio, Mercier e Cainier, i Nagg e Nell di «Fin de partie» che nei loro porta immondizia dimenticano l'orrore del presente evocando i ricordi gioiosi del loro viaggio di nozze, la coppia fraterna dei due barboni Estragon e Vladimir, che aspettano sempre • Godot, o quella sado-masochista di Pozzo e Lucky, nella stessa opera. In altri lavori questi rifiuti umani si attaccano ancora alla vita attraverso il possesso di un oggetto: la lercia bisaccia che l'uomo-larva si trascina sempre dietro in «Comment c'est», oppure la borsetta che, nel deserto in cui sprofonda a poco a poco, rappresenta un tesoro per la Winnie di «Oh. les beaux joursf •>. Nessuna presenza umana invece, nessun oggetto-feticcio, nello spazio chiuso in cui giace — senza neppure un lenzuolo — l'uomo supino di Compagnia. Come Molloy, ha solo le parole per suo conforto. «Parlare, presto, delle parole, come il bambino solitario che s'inventa di essere in parecchi, due o tre, per essere insieme, e parlare insieme nella notte», diceva già Hamm. Ma l'uomo supino, che non ha più neppure un nome, finisce per rinunciare anche alle parole, alla compagnia dei personaggi immaginari. Assume il suo destino con dignità, da stoico. «So-, lo»: la parola con cui si chiude il testo, spicca isolata, come una perla nera, nello scrigno bianco della pagina. ■ Elena Guicciardi

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