I mercanti del Mugello che inventarono la holding

I mercanti del Mugello che inventarono la holding Ascesa, dominio e caduta dei Medici nel saggio dello storico inglese Hale I mercanti del Mugello che inventarono la holding CON nove mostre, allestite nei suoi più bei palassi e chiese, dedicate a diversi campi della cultura, dell'arte e dell'economia, Firenze si prepara in questi giorni a celebrare i Medici e il Rinascimento che hanno fatto della città sull'Arno uno scrigno incomparabile di bellezza e di civiltà. Con perfetta tempestività, l'editore Mursia ci offre quella che, a nostra avviso, è certo una delle chiavi più sicure per aprire quello scrigno e scoprirne i segreti riposti: la traduzione italiana dell'opera di J.R. Hale, Firenze e i Medici (259 pagine, 15 mila lire). Insigne italianista della London University e presidente del Comitato Direttivo della National Gallery di Londra, non è quindi solo un esperto sia di letteratura che di arte italiana, ma è soprattutto uno scrittore inglese, dotato di quel dono di chiarezza e di sintesi che è caratteristico della scuola britannica di storiografia e di biografia. Egli riesce a darci un'analisi critica approfondita della linea evolutiva e involutiva della famiglia che ha fatto grande Firenze nell'età del Rinascimento e insieme un acuto ritratto psicologico dei singoli suoi membri, che da mercanti di provincia, divennero signori di una città e di una regione, e infine sovrani trai più prestigiosi, nei secoli in cui nacque e si consolidò l'Europa moderna, in cui maturarono le crisi decisive, di cui, a tanti secoli di distanza non sono ancor del tutto cancellate le conseguenze, specialmente nel campo religioso. Dal Mugel selvoso, come canta il pucciniano Gianni Schicci, scesero a Firenze i Medici mercanti coraggiosi, che via via, tra i'età di Dante e quella del Boccaccio, andarono trasformandosi in commercianti e finanzieri internazionali, mutando i lóro forzieri privati in una vera e propria banca, una delle prime del genere nell'Europa che si preparava a uscire dal Medioevo, l'antenata, secondo Hale, delle moderne holdings finanziarie. Giovanni di Bicci, vissuto tra la secónda metà del XIV secolo e i primi decenni del XV, era ormai così potente finanziariamente da affermare anche il proprio prestigio politico nel quadro degli ordinamenti della città. Suo figlio Cosimo ne raccolse l'eredità, accrescendola finanziariamente e politicamente, tanto da poter divenire di fatto il signore della città, pur rispettandone, primus inter pares, lo statuto repubblicano, al punto da meritarsi l'epitaffio di «pater patriae», di colui in cui s'era identificato il predominio ^della città sulla maggior parte della Toscana e l'espansione economica in tutti i mercati italiani ed europei. Vinti i nemici Albizzi, si dedicò intieramente allo sviluppo della città e insieme delle proprie fortune mercantili. Si deve a lui l'inizio della trasformazione della Firenze medievale, con le casette di mattoni e le finestre ogivali, nella città splendente di marmi, di statue, di affreschi, di grandi chiese e di palazzi monumentali, tra cui primeggia il superbo edificio che Cosimo fece erigere da Michelozzo per la sua famiglia in via Larga, dalle pareti rese smaglianti dalle pitture dì Benozzo Gozzoli. Per quest'ultima opera d'arte, più che per il modesto rilievo e le scarse fortune della sua politica, ricorderemo suo figlio Piero, che, afflìtto com'era, dai mali ereditari dell'artrite e della gotta, passò alla storia come «il Gottoso». Non tentiamo certamente di seguire lo storico inglese nella sua narrazione, insieme sintetica e minuziosa, della storia di Firenze e dei Medici che va sempre più appaiandosi, fino a sovrap- porsi, ma non possiamo, con l'autore, non soffermarci su colui che fu il più tipico, e insieme il più grande dei Medici, il figlio di Piero, Lorenzo, detto il Magnifico: come gli altri discendenti di Giovanni di Bicci, la sua educazione era stata affidata ai maggiori maestri del suo tempo, che era quello del rinascere della letteratura, delta filosofia e dell'arte greca e latina, e aveva i suoi maestri in Cristoforo Landino, in Marsilio Ficino. in Leon Battista Air berti. Prima ancora*che mercante e politico, Lorenzo fu poeta e filosofo, ed è superfluo ricordare i suoi canti carnascialeschi e i suoi poemi villerecci, in cui alla cultura classica e mitologica, si fonde la vena popolaresca, di pura fonte contadina toscana, come la Nencia di Barberino. Similmente non possiamo soffermarci sull'esame delle sue dottrine filosofiche, compendiate nell'attività dell'Accademia Neoplatonica, da lui fondata, e che esprime nel suo stesso titolo il suo pensiero, che è certa-, mente più ellenistico che cristiano, anche se-ad assolverlo al suo letto di morte sarà Girolamo Savonarola, che pochi anni dopo, per il suo cattolicesimo insieme repubblicano e antipapista, morirà sul patibolo. Piuttosto, in questa sorta di grafico che cerchiamo di tracciare, sulla .guida dello storico inglese, delle fortune politiche medicee, vogliamo sottolineare che Lorenzo, pur non godendo ancora di nessun primato costituzionale nella repubblica aristocratica c'era la Firenze di allora, appoggiò la sua politica a una serie di direttrici essenziali: condurre le relazioni con gli altri Paesi, italiani ed europei, curare lo sviluppo economico di Firenze grazie alla sua rete bancaria, seguire' la chiara convinzione che il primato della sua città in Italia e l'affermazione in Europa era legato a una stretta alleanza con la Chiesa. Volle perciò che iVsuo secondogenito, Giovanni, abbracciasse gli ordini religiosi a otto anni, diventando addirittura cardinale a tredici. A lui, eletto papa col nome di Leone X, spetterà di consolidare il dominio mediceo su Firenze, così come al cugino illegittimo Giulio, succedutogli sul trono di Pietro col nome di Clemente VII, dopo ilbreve interregno di Adriano VI, l'ultimo papa straniero prima dell'attuale regnante — passate la tempesta franco-spagnola culminata col Sacco dì Roma e l'uv ragano della riforma luterana — toccherà il compito d'instaurare, sotto forma di ducato, assegnato a un altro illegittimo, Alessandro, la signoria medicea assoluta su Firenze. Attraverso il dramma romantico di De Musset, tutti sanno che questo primo «tiranno» di Firenze fu spento dal pugnale mosso dal cugino Lorenzino. Pure, malgrado il «Lorenzaccio» mussettiano, il ducato non soffocava a Firenze una democrazia popolare, ma una repubblica aristocratica, stretta nelle mani di poche famiglie patrizie, che si dividevano le cariche pubbliche, ribellandosi a ogni generazione contro la crescente influenza medicea, appoggiata dal favore popolare: gli Albizzi contro Cosimo il Vecchio, i Pazzi contro Lorenzo, di cui uccisero il fratello, più tardi gli altri nobili, sconfitti a Montemurlo dalle truppe di Cosimo I. Fu questi il successore di Alessandro, un cugino d'altro ramo, figlio del grande condottiero Giovanni delle Bande Nere, non solo di fatto, ma anche di diritto prima duca di Firenze, riconosciuto come tale dall'imperatore, e a cui si deve la fondazione d'uno stato territoriale toscano, ricco anche di un porto come Livorno e forte di una flotta di galee, appartenenti all'Ordine di S. Stefano, da lui creato. Ormai salito sul trono di una Firenze divenuta monarchia, pur conservando la parvenza, sia pur riformata, degli antichi ordinamenti, Cosimo seppe far tesoro del primo dei princìpi di Lorenzo il Magnifico, saper condurre la politica estera in modo da assicurare le maggiori fortune allo Stato, il che equivaleva, in quei tempi, a barcamenarsi fra Spagna e Francia, che alternavano il loro predominio in Italia. Firenze medicea, appoggiata inizialmente alla Spagna di Carlo V, ritroverà l'amicizia francese con l'ascesa al trono di Francia di principesse nate dai due rami della famiglia de' Medici: Caterina, figlia di Lorenzo duca d'Urbino, -sposa di Enrico II di Valois, e più tardi Maria, seconda moglie di Enrico IV di Borbone-Navarra. Rimaste entrambe vedove per la morte cruenta dei mariti — Enrico II, caduto in un torneo, Enrico IV ucciso dal pugnale di Ravaillac — le due regine medicee esercitarono lungamente la reggenza, legando il proprio nome la prima, madre dei tre ultimi Valois, alla strage di Ugonotti della Notte di S. Bartolomeo, la seconda, la rubensiana Maria, al conflitto col figlio, Luigi XIII, appena maggiorenne. Seguire l'illustrazione che Hale fa dei Medici regnanti dalla morte di Cosimo I (1574), è come camminare in una galleria di ritratti di sovrani, ormai divenuti granduchi di Toscana, e contemplare successivamente i volti, dipinti dai maggiori pittori del loro tempo, di Francesco I, del fratello Ferdinando, di due altri Cosimi e di un secondo Ferdinando, che, attraverso tutto il secolo XVII, segnato da crisi economiche e da crescente perdita di prestigio politico, conducono fino all'ultimo granduca, Gian Gastone, in cui si riscontrano tutti i segni della decadenza e della degenerazione di una dinastia che ha ormai perduto ogni vigore, persino la capacità di riprodursi, abbandonata alla crapula contro natura e condannata dalla storia all'estinzione. Se la Firenze medicea finisce in pieno '700, dopo quasi tre secoli di crescente prestigio, di governo quasi sempre illuminato, di eccezionale mecenatismo, i Lorena, a cui sarà assegnato il trono toscano, cui viene assicurata l'indipendenza, si troveranno padroni di una città meravigliosa, che il dominio mediceo ha arricchito di un numero incalcolabile di tesori, tra opere di pittura, di scultura, di architettura, biblioteche di eccezionale ricchezza, accademie e centri di studi scientifici; di uno Stato che vanta campagne opulente, opifici, flotte, e, sopra ogni categoria di beni, materiali e spirituali, un irradiamento di cultura, che gli anni che verranno non riusciranno a oscurare e che i Fiorentini del ventesimo secolo intendono far brillare di una luce nuova nelle celebrazioni odierne di una famiglia a cui si deve la grandezza e la bellezza della loro città. Guido Artom Lo stemma dei Medici e Palazzo Belvedere, sede della mostra «Il potere e lo spazio»