Andiamo al cinema? Sì, ma senza la semiotica di Fernaldo Di Giammatteo

Andiamo al cinema? Sì, ma senza la semiotica Andiamo al cinema? Sì, ma senza la semiotica Glauco Viazzi SCRITTI DI CINEMA 1940-1958 Longanesi, Milano pagine 412,7500 lire André Bazin IL CINEMA DELLA CRUDELTÀ' Il Formichiere, Milano pagine 166,6000 lire Lino Miccichè LA RAGIONE E LO SGUARDO Lerici", Roma pagine 290, 6000 lire E, sempre stato complicato il rapporto fra il cinema e la critica. Oggi lo è meno. L'ondata di «qualunquismo» semiologico, che tocca ormai tutte le sponde della consumazione cinematografica, ha semplificato parecchie cose: in particolare ha costretto ogni «consumatore» (sia spettatore casuale sia spettatore abituale sia critico) a schierarsi prò o contro e, nello schierarsi, a presentare — se si può dire così — le proprie credenziali. Anche se la brutalità e la rozzezza delle divisioni non sono precisamente ciò che occorre per fare critica, il bisogno di prendere posizione sempre (per esempio, a favore o contro il rifiuto di giudicare che è tipico dell'approccio semiologico, a favore o contro il privilegio accordato ai generi del più becero spettacolo), questo bisogno aiuta a vedere chiaro, più di quanto mai sia accaduto in passato, ★ * Si può partire, magari, dalle riflessioni altrui, che sono — nel caso attuale — quelle di critici fra lóro assai lontani, eppure singolarmente convergenti alla luce delle esperienze contemporanee. Glauco Viazzi svolse attività, di critico cinematografico dall'inizio della guer¬ ra sino al 1958 (dopo ha concentrato la sua attenzione sulla letteratura, che tuttora coltiva con risultati di grande pregio, fra simbolisti, crepuscolari e anarchici, soprattutto di area lombarda). Fu nel suo lavoro di recensore un materialista, legato ai moduli del neorealismo e, in parte, a quelli del realismo socialista: implacabile spesso nelle preferenze e nelle esclusioni, settario quanto bastava ma non in maniera immotivata o umorale. Al materialismo marxista Viazzi accoppiò una sensibilità letteraria e figurativa di ascendenza surrealista, e ciò senza che — miracolosamente — ne scaturisse vera contraddizione. Si trattava, per lui, di cogliere nel mare del cinema (di ogni tipo di cinema) quel che realizzasse — come ebbe a scrivere recensendo Il grido di Antónioni — «una rispondenza esatta tra mondo rappresentato e creazione del mondo». La mera descrizione del prodotto, o dell'opera, lo lasciava indifferente, anzi lo infastidiva. Sentiva necessario, appunto, prendere posizione («impegnarsi», si diceva allora), scegliere, affermare una precisa idea di cinema, scoprire ciò che sembrasse indicare una strada. Accettare l'esistente era negare la funzione stessa della critica, anche se ci si avvaleva di tutti gli strumenti che potessero consentire una appropriata messa a fuoco dei linguaggi e degli stili presenti nelle opere (e questo Viazzi dimostrerà con speciale acutezza nel lar voro di critico letterario). Nemmeno André Bazin — il critico francese che fu in un certo senso promotore e patrono della «nouvelie vague» — accettò mai l'esistente né mai se ne accontentò. Ih questo Cinema della crudeltà, raccolta di saggi, interviste e recensioni intorno ad alcune personalità stranamente omogenee (da Stroheim e .Dreyer, da Preston Sturges a Bunuel. a Hitchcock, a Kurosawa), Bazin è interessato a spiegare quel che di vitale è nato da un certo uso — ferocemente egocentrico, strettamente individualistico — del linguaggio cinematografico e, su questa base, a stabilire quanto abbia contato (e ancora possa contare, per il futuro) l'opera dei registi maggiori. Il cinema è arte aleatoria, di fragili basi culturali. ★.★ Solo l'autore che abbia c'.i volta in volta la capacità di intuirne (e sfruttarne in anticipo) gli sviluppi, solo costui ha diritto al riconoscimento pieno del critico. «Mentre un'arte molto più evoluta, come per esempio la letteratura — scrisse Bazin nel 1947 a proposito di Dies Irae — permette allo scrittore di rimanere fedele, per tutta la vita, al suo stile e alla sua tecnica, il cineasta non gode di un'eguale indipendenza. Sembra che al cinema non vi siano affatto valori intrinseci; il genio ha il dovere di non lavorare se non all'avanguardia del fronte cinematografico. Per bello che sia, un film che non fa avanzare il cinema non è affatto cinema, proprio perché non è in armonia con la sensibilità del pubblico contemporaneo». » Affermazione grave ma ragionevole. Non c'è individualismo di artista che serva se non è «asservito» alla evoluzione del cinema, e solo a quella. E il cinema non può essere assolto da nessuno dei peccati cui è condannato per effetto della sua immaturità (l'infantilismo populistico, la manipolazione industriale dell'immaginario collettivo, il tecnicismo fine a se stesso e così via) se questa evoluzione non avviene in armonia con le esigenze dello spettatore. La bellezza e la perfezione non valgono se non hanno radici nella comunicazione. Comunicazione che è al centro degli interessi del terzo critico, Lino Miccichè. Appartenendo alla generazione venuta dopo quella dei Viazzi e.dei Bazin, rivela distacco maggiore dai propri gusti e un controllo più scaltro degli orientamenti ideologici. Si scopre meno ma non è meno esigente. Ed è proprio sul terreno della comunicazione, e portando alle conseguenze estreme (com'è giusto, oggi) certe intuizioni baziniane, che sfiora le note più utili per un discorso sul cinema e il suo destino. Dalla «rilettura» di Ossessione a una analisi dei rapporti teorici e pratici fra cinema e letteratura, da una severa condanna del cosiddetto cinema politico, che non ha saputo inventarsi una forma degna delle civili intenzioni («bisogna modificare non solo il mondo ma anche i linguaggi del mondo», chiarisce) all'esame dello stile di Anghelopulos, tutta la riflessione di Miccichè verte sulla possibilità di una diversa comunicazione fra gli uomini, da realizzarsi con la progressiva messa fuori gioco dell'ùidustria e con l'inizio di quella «età adulta» cui il cinema ha ormai il diritto di aspirare. Posizione utopistica, naturalmente, ma giustificata con molto rigore. Anche questo, e anche in un critico delle nuove generazioni, è un modo di fare scelte, contro l'agnosticismo descrittivo, limpidissimo ma inerte (e, alla fine, pericoloso) cui indulgono i semiologi di varia confessione. D cinema va disfatto, rifatto, contraddetto. Non accarezzato, non subito. Fernaldo Di Giammatteo

Luoghi citati: Milano, Roma