Klossowski nel saio delle mille tentazioni

Klossowski nel saio delle mille tentazioni //primo romanzo, scritto nel '50 Klossowski nel saio delle mille tentazioni Pierre Klossowski LA VOCAZIONE INTERROTTA Einaudi, Torino pagine 100, lire 5400 IL lettore che volesse attenersi al saggio consiglio di Borges di lasciar decantare ogni libro per almeno cinquantanni, prima di degustarlo, ha avuto un buon margine di tempo per verificare la validità di questo che, essendo apparso da Gallimard nel 1950. è il primo romanzo di Klossowski. In Italia, le ultime apparizioni di Klossowski risalgono alla traduzione delle Dame romane (Adelphi, 1973j, e alla riproposta garzantiana di Sade prossimo mio (1975), già apparso da Sugar, che in precedenza aveva tradotto // bafometto e Le leggi dell'ospitalità. Per inquadrare questo testo, che Guido Neri ha tradotto e corredato di note acute, doviziose e pazienti, occorrerà qualche rapido cenno sull'iter culturale dell'autore. Cresciuto in un ambiente di artisti, protetto da Rilke e poi da Gide. il giovane Klossowski entra nell'ambiente letterario parigino, dove frequenta Paulhan. Groethuysea Jouve. Cocteau Ottimo traduttore dal tedesco (Holderlin. Kafka) nel 1933 abbozza un'analisi psicoanalitica di Sade L'anno seguente incontra Batailie. con cui partecipa ai lavori di «Acéphale», una rivista di religione, sociologia e filosofia (vi collaborano tra gli altri Caillois, Leiris e Kojève) che è gestita in forma quasi esoterica, di società segreta. Intanto frequenta Benjamin, esule a Parigi, e ne traduce alcu-, ni scritti; si avvicina a Mounier e al gruppo di «Esprit» Una crisi religiosa lo porta a entrare come novizio nei domenicani. Dopo la guerra torna alla condizione di laico, svolge una intensa attività di critico e narratore, si cimenta nel disegno e nel cinema, continua a tradurre. All'esperienza di seminarista sembra ispirarsi Una vocazione interrotta, non fosse che questo letteratissimo gioco è tutte meno che una franche de vie. Klossowski vi immagina che un anonimo redattore si ritrovi a chiosare un testo (immaginario e forse inesistente) che porta lo stesso titolo, in cui si dà conto della perigliosa navigazione del giovane Jerome in una comunità religiosa che riproduce specularmente gii mtrighi e le sopraffazioni della società laica. Il padre provinciale, La Montagne, madre Angélique, suor Théophile, il pittore spagnolo Malagrida animano una aggrovigliata partita di insidie, tentazioni e inganni, condotta in nome dell'ortodossia con una lucidità capziosa degna dei libertini settecenteschi più che di San Paolo. Impossibile riassumere il gioco in cui af¬ fiorano temi quali la vocazione, l'obbedienza, la-Chiesa come istituzione, o il rapporto tra fede e iconografia sacra: tutti portati al calor bianco di una autentica fissione speculativa. Più che i fatti, d'altra parte, conta la riflessione su di essi, conta il proliferare delle ipotesi e delle congetture, con cui Klossowski (o meglio il commentatore dietro cui si nasconde) intende saggiare (ma anche confutare) tutte le possibili varianti della psicologia e dell'intreccio, senza temere di saturare il quadro di interrogativi, o di contraddirsi. Finzione al quadrato, al cubo, dunque, straniante rifrazione di specchi: un prodotto di vertiginosa ingegneria letteraria che Klossowski, come spiega Neri, ha desunto dal Gide di Paludes e dei Faux-monnayeurs, ma anche dal Wilhelm Meister di Goethe, o dal ritratto dei coniugi Arnolfini di Van Eyck, dove lo specchio appeso alla parete restituisce deformati non solo i personaggi e l'ambiente, ma anche la figura dell'artista: «un continuo passaggio dalla vita alla finzione, e dalla finzione a una realtà al di là della vita». Il libro vive appunto dell'ambiguo rapporto tra «discorso» e «racconto», cioè tra le riflessioni via via più assillanti del chiosatore e i lacerti narrativi dell'invisibile testo originario; e se inizialmente si attarda a discutere la propria metodologia, col progredire delle pagine-assume autoironicamente la rapidità di,una trama cinematografica. Ma è chiaro che l'obiettivo dell'autore resta quello di frustrare la fame di romanzesco del lettore con una rete di ambiguità e di riferimenti, di irrisioni e di ammicchi. Certo, ripercorrere oggi questa esperienza problematica del romanzo, che da noi ha avuto la sua massima fioritura negli Anni Sessanta, esige una strenua applicazione archeologica, quasi uno stoicismo specialistico. Resta, come sempre nelle macchine iper-sofisticate, l'interrogativo se la progettazione non finisca per sopraffare la comunicazione; se cioè, come nel quadro di Van Eyck, là deformazione dello specchio non richieda dialetticamente anche un termine reale di confronto. D'altra parte Klossowski era ben conscio dei rischi che correva, e non esita a discutersi: «Perché tante peripezie e tanti preamboli?» (p. 57), «Quanto è fiacca questa immagine» (p. 61). Se è vero, per citare ancora una volta Borges, che un testo deve portare in sé la propria negazione, o almeno la propria autocritica, ecco Klossowski puntuale e spavaldo al confiteor: «Per l'autore c'era il pericolo di psicologi ciliare invece che raccontare e descrivere le manovre dello spirito maligno, ossia di farsi catturare dal procedimento prima di catturare il lettore». Ernesto Ferrerò

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