Come a Rio con Casanova di Alvise Zorzi

Come a Rio con Casanova Come a Rio con Casanova Alvise Zorzi, studioso di Venezia, ha terminato un altro libro sulla Serenissima, che sarà in libreria entro la fine del mese di marzo. Si intitola «La repubblica del Leone», lo pubblica Rusconi (760 pagine, 24.000 lire). «La repubblica del Leone» racconta la storia della città fino a Manin, l'ultimo dei dogi. APPRODATO dopo lunghe traversie ad un albergo veneziano. Candido, l'ingenuo protagonista dell'omonimo romanzo di Voltaire, ha la sorpresa di incontrarvi, alla «table d'hòte». ben nove sovrani, tra regnanti e detronizzati, tutti venuti a Venezia per Carnevale. Nel 1739. un viaggiatore francese, questa volta autentico, il presidente de Brosses. descrive con entusiasmo le meraviglie del Carnevale veneziano: «... comincia già il 5 ottobre e ce ne un altro di quindici giorni all'Ascensione, così che qui si possono contare all'incirca sei mesi in cui chiunque, compresi i preti, compresi il nunzio apostolico e il padre guardiano dei cappuccini, non esce che in maschera. Non scherzo: è l'uniforme d'ordinanza... ». Non scherzava nemmeno Voltaire. Anche se, ufficialmente, incominciava il 26 dicembre e terminava il mercoledì delle Ceneri, il Carnevale di Venezia aveva appendici che si dilungavano per quasi met/ dell'anno, e mezza , Europa si riversava sulle Lagune a goderselo. Nella folla che riempiva locande e alberghi, a cominciare dal lussuoso «Leon Bianco» dove l'avventura di Candido avrebbe potuto ripetersi ogni anno, non mancavano nemmeno i Turchi con tanto di turbante. E dappertutto si faceva festa, nei palazzi dei grandi e nelle catapecchie dei poveri: spettacoli, conversazioni e mascherate si organizzavano perfino nei monasteri di clausura. A che cosa si potrebbe paragonare, in termini di oggi, il Carnevale veneziano del Settecento? Fprse al Carnevale di Rio' de Janeiro, ma senza la componente di violenza che affiora così sovente nella grande festa brasiliana. Durante i festeggiamenti del Carnevale 1782. organizzati in suo onore, il futuro Zar Paolo I di Russia fece le sue meraviglie vedendo tre operai dell'Arsenale tenere ordine in una folla di almeno ventimila persone: da noi. disse, ci vorrebbero le artiglierie. Prima, però, che la raffinatezza di una civiltà troppo matura spegnesse gli umori sanguigni e bellicosi dei Veneziani, quella componente era talvolta esplosa in maniera drammatica. Nel Carnevale del 1517, per festeggiare la notizia della riconquista di Verona, le maschere avevano ingaggiato una battaglia a palle di neve così feroce che erano morte addirittura diciassette persone. In comune col Carnevale di Rio troviamo la partecipazione corale di tutte le categorie sociali e il gusto estroso delle mascherate individuali e collettive, dei cortei assurdi e bizzarri, dei carri allegorici fantasiosi. Nel pandemonio che invadeva le contrade di Venezia, tra banchi di ciarlatani, palchi di comici dell'arte, casotti di indovini, baracche di bestie rare, sfilavano «bernardoni» e «gn^ghe» (finti straccioni e finte popolane con sulle braccia gatti e cagnolini in fascie come, lattanti), diavoli, ninfe, astrologhi, finti chioggiotti e finti pescatori con canestre di pesce vero. Citiamo a caso da una lista di travestimenti: «... da Pulcinella con piatto di Macaroni. da serva di Monache con cesto di buzzoladi (ciambelle), da Turco con pipa e scettro, da Buranello. da Brighella, "da Dottor, da Avvocato, da 'Scoacamini, da Strazzariol. da Tedesco conzerla. da Ebreo piangendo Carnovale, da Cacciatore con uccelli e finto schioppo, da Vecchio tremante e gottoso, da Armeno vendendo bagigi (arachidi), da Satiro con sgrugno e orecchio d'Asino, da Amazzone, da Moro, da Gobbo, da Assassino da strada, da Orso incatenato e ballante: con finto Cavallo girando la piazza di galoppo... ». Fatto inaudito, era consentito persino mascherarsi da patrizio in toga e parrucca. Ma la maschera principe, che nascondeva fattezze patrizie e plebee sotto lo stesso volto cereo e impassibile, era la baùta: una larva bianca sul viso, un tabarro nero, un effetto stranamente lugubre e conturbante, macabro e spettrale. Ebbene, la baùta. uniforme di Carnevale come diceva de Brosses. era uno strumento livellante e liberatorio insieme. Poiché la portavano veramente tutti, compreso il Doge, faceva sparire le distanze sociali, rispondeva al sostanziale spirito egualitario dei Veneziani anche in regime aristocratico. E permetteva ai più austeri personaggi ufficiali di essere se stessi, di avere una vita privata, cosa che l'obbligo di indossare sempre la vesta d'ufficio rendeva loro normalmente impossibile. Poiché di Carnevale i teatri presentavano le più sensazionali «prime» in musica e in prosa, confluivano a Venezia anche gli amanti dell'opera e della commedia (musica concertistica e da camera c'era a josa tutto l'anno). Giovedì grasso, poi. la festa diventava liturgia di Stato: davanti al Doge e alla Serenissima Signorìa! in Piazzetta, si ammazzavano il toro e i dodici porci che simboleggiavano la remota sconfitta del patriarca Ulrico d'Aquileja e dei suoi dodici canonici, un acrobata scendeva, sulla corda, dal campanile (era il cosiddetto svolo de l'anzolo o del turco), i gondolieri componevano le figure acrobatiche note come le forze d'Ercole. Il giorno delle Ceneri si concludeva con grandi «magnazze» di pesce: a mezza quaresima si faceva baldoria daccapo. Ce n'era proprio per tutti i gusti, compresi i giocatori e (manco a dirlo, nella patria di Casanova) i libertini. Ma. in realtà. Carnevale era anche un'immensa operazione turistica. Quando la Signorìa, nel 1789. ritardava l'annuncio della morte del doge. Paolo, Renier per non turbare gli spassi carnevaleschi, non lo faceva per cinismo e insensibilità morale, ma per non guastare una season eccezionalmente remunerativa. Ogni Carnevale rappresentava una pioggia d'oro per tanti, albergatori e gon'dolieri, osti e cortigiane, commercianti e artigiani: lo spirito godereccio dei Veneziani moltiplicava all'infinito le trovate e le attrattive. Fino acquando Bonaparte ammazzò la Repubblica consegnandola all'Austria, e Venezia divenne, per dirla con Lorenzo Da Ponte, una «ex Venezia» senza vita e senza allegria. Alvise Zorzi «La piazzetta di San Marco» di Francesco Guardi