Senghor: civis romanus sum

Senghor: civis romanus sum Incontro con il presidente del Senegal poeta e leader della «négritude» Senghor: civis romanus sum IL poeta africano Léopold Sedar Senghor, presidente del Senegal, ha ricevuto il 13 gennaio in Campidoglio, la cittadinanza onoraria romana. Il cantore della «négritude» è venuto in Italia anche per presentare «I racconti di Amadou Koumba», di Birago Diop, primo volume della «Collana dicultura negro-africana» promossa dall'Istituto italiano di cultura a Dakar e pubblicato a Bologna da Patron. ROMA — «Ogni sera recito le mie preghiere in latino» mi dice Senghor mimando con le sue piccole mani la forma del libro di preghiere e l'atteggiamento del lettore. E subito inizia a recitarmi credo* in unum Deum, Patrem omnipotentem pronunciando correttamente un latino netto di ogni brutta accentuazione francese. E lo recita con una qualità speciale'di orgóglio: sta per ricevere in Campidoglio la qualifica di civis romanus e ci tiene a pronunciare impeccabilmente la lingua antica di Roma, sicuro che nessuno sorriderà di lui. Mentre recita il Credo osservo la sua espressione improvvisamente illuminata dal ricordo dell'infanzia trascorsa fra i padri missionari di Ngazobil nella brousse del Senegal orientale. L'educazione cattolica prevale per un momento sui suoi modi di uomo di mondo qual è, e per un impercettibile flash-back rivedo lui, il piccolo ragazzo negro del clan dei-Senghor, al quale i missionari dello Spirito Santo impartivano lezioni di catechismo sperando "di avviarlo alla carriera ecclesiaStica;^Era un ragazzo come tanti altri, di una famiglia di buone condizioni finanzia• rie. che contava circa sessanta individui fra familiari e inservienti. Né bello né brutto, di salute- delicata, corporatura minuta, e una ferma determinazione, quasi caparbia, sotto 'il timido sorriso. Così lo ricorda ancora oggi la nonagenaria cognata Hélène che di lui si occupò quando in tenera età restò orfano della mamma, la giovanissima ragazza Peul che era una delle cinque mogli del vecchio Senghor, commerciante di arachidi e amico dell'antico re di Sin e Saloum. «Fin da ragazzo ci ho tenuto ad imparare perfettamente il latino e la matematica, ho voluto essere il piùbravo di tutti. Posso dire che non ho avuto altro desiderio che rubare all'Europa i suoi potenti valori culturali. Amelie se sentilo dentro di me, oscuramente, che i padri missionari si sbagliavano crédendo di riempire con tali valori un vuoto assoluto, una tabula rasa. Purtroppo a quei tempi non avevo argomenti razionali da opporre, ma sia pure confusamente, intuivo che la nostra civiltà, la civiltà negro^africana, possedeva valori diversi ma altrettanto validi». Sappiamo che questa intuizione diventò in lui un'acuta e lunga autoanalisi che gli permise di scoprire in sestesso alcuni valori antagonistici sui quali fosse possibile basare una controffensiva alla cultura europea che rischiava di alienarlo. o per 1q, meno un'autodifesa .della propria identità di negro. Il suo non era un problema personale, ma il problema di tutte le comunità negre d'Africa e d'America. Con lui altri giovani leoni sperimentavano la stessa frustrazione; e tra questi alcuni come lui famosi, Aimé Cesaire e Leon Damas, negri come lui, come luì raffinati intellettuali, personalità aggressive e indomite, uomini decisi a battersi per qualcosa che vales¬ se altrettanto quanto per i bianchi sembrava valere l'appartenenza alla razza bianca. Dal loro intimo disagio, dalla riflessione fraterna e comunitaria, dalla loro vitalità e dalla loro malinconia nacque la ricerca della négritude, cioè del valore antagonista. Nacque così una filosofia, un sistema di pensiero, che è forse ciò che più a lungo sarà ricordato di lui; del ragazzo negro chvera stato il primo della classe nella scuola della missione, e fu il primo della classe al liceo Louis Le Grand, del giovanissimo laureato alla Sorbonne, insegnante di latino e greco per oltre dieci anni nei licei francesi di Tours e Bertolot alla periferia di Parigi, quindi agregé di storia e civilizzazione negre alla Sorbonne, deputato al Parlamento di Parigi, estensore nel 1946 del testo della Costituzione francese, infine presidente della Repubblica del Senegal e accademico di Francia. «Dovevo studiare molto per riuscire — continua Senghor —perché non mi era facile apprendere, non avevo l'intelligenza rapida e brifr tante del mio compagno di scuola Georges Pompidou. E perciò non smettevo mai di studiare finché non ero proprio del tutto sicuro di aver imparato. Ero un secchione, uno sgobbone come dite voi», ammette sorridendo, senza ombra di vergogna. E si capisce che gli piacciano le cose conquistate con dura fatica, perché tutta la sua vita è stata una faticosa sfida contro i pregiudizi razziali, contro l'emarginazione, contro l'anonimato cui la razza negra sembrava da sempre condannata. Emanciparsi' da tutte queste sudditanze secolari senza perdere se stessi, senza «assimilarsi» ai bianchi, senza diventare un bianco di seconda scelta: questo è stato il suo problema di fondo. « Perché — spiega — la nostra non era che la ricerca di noi stessi, il salvataggio in extremis prima del^ la follia o della perdita defini Uva di iden tità». Chi volesse descrivere Senghor come uno splendido prodotto del successo, privo di conflitti e di con-, traddizioni, dimenticherebbe a. torto il valore della sua drammatica esperienza. Egli non la dimentica e ci tiene che se ne apprezzi il significato e la potenza catalizzatrice nel suojprocesso di emarginazione. Ci tiene a-ripeterci che ha agito la sm nevrosi di povero\egro. cne ne ha fatto uno strumento di lavoro. «Ho preso in mq.no la mia debolezza e né ho fatto un'arma di lotta» e con essa si è battuto e si è imposto ai suoi avversari. Penso che si possa proprio dire che la négritude ha creato Senghor almeno quanto Senghor ha creato la négritude. Oggi a 75 anni è il più importante capo di Stato africano, forse il più colto e raffinato esemplare del mondo politico contemporaneo, un poeta di grandissime qualità, un diplomatico abile e affascinante; ed è il primo negro, dopo secoli, che a titolo onorario viene riconosciuto degno di chiamarsi civis romanus. E' questa una qualifica un po' fuori moda, un diploma di una classicità superata, un riconoscimento cui più nessuno diceva di aspirare da tempo, che tuttavia Senghor desiderava moltissimo e che per la sua tensione emotiva ha assunto, nel corso della cerimonia ufficiale, un pathos inusitato, proprio dei riti di pace, come ha ben detto il sindaco Petroselli. E' stato infatti un rito di pace, di fiducia nella fraternità umana, nei valori della civiltà occidentale, ma più ancora nel métissage delle culture, cui Senghor da sempre affida il compito e la capacità di salvare l'umanità dalle tentazioni suicide che l'affliggono. «L'elogio della cittadinanza romana che oggi 14 gen- naio 1980 ricevo qui a Roma suona per noi come un programma dolorosamente urgente — ha detto Senghor rispondendo all'allocuzione del sindaco' di Roma — perché il nostro tempo si trova drammaticamente di fronte ad ostacoli che intralciano l'esercizio della sovranità dei popoli. La condizione sine qua non per attuare questo programma è il ritorno ad una vita civile degna di questo nome, un ritorno alla vera democrazia. ' Una volta i cittadini di Roma avevano la libertà di esprimersi sulle decisioni politiche, sulla par¬ tecipazione alla difesa nazionale, sul contributo alle spese dello Stato. Il cittadino era veramente membro di una comunità che esisteva per mezzo suo e soltanto nel suo in teresse. «Ha oggi il cittadino dei nostri tempi gli stessi diritti? le stesse possibilità di agire? La nostra situazione oggi, di fronte al capitalismo avanzata, alle multinazionali, al falso socialismo esige da noi una prova di immaginazione (...). Noi africani del XX secolo vogliamo ancora una volta fecondare la cultura occidentale con i valori della nostra africanità, dando il contributo di una sensibilità nuoiia* al mondo in cammino, come già fecero Terenzio, Sant'Agostino e tanti altri africani»^ Salutandomi mi ripete, come ha già fatto molte volte durante i 30 anni della nostra amicizia: «Lei sa bene che questo atteggiamento corrisponde alla mia vecchia tesi siiZ métissage secondo cui tutte le grandi civiltà furono esclusivamente civiltà culturalmente e biologicamente miste». Come dargli torto? Marcella Glisenti