Hanno un cielo nella mente

Hanno un cielo nella mente Sei autori del quarantatreesimo quaderno della «Fenice» Hanno un cielo nella mente QUADERNI 1 DELLA FENICE N.43 Testi di Lue? Archibugi Maria Attanasio Maurizio Brusa Massimo Cescon Valerio Mag rolli Angelo Maugerì Guanda, Milano 138 pagine, 4000 lire GOL n. 43 1 «Quaderni della Fenice» pubblicano il quarto dei collettivi di poesia diretti da Giovanni Raboni e redatti da Maurizio Cucchi, che fino dal primo numero della serie hanno avuto il fine di presentare più testi poetici di altrettanti autori, scelti fra i giovani, i non ancora affermati, o i del tutto ignoti La formula editoriale, in complesso fortunata, ha per-« messo alla collana di svolgere un lavoro molto notevole di scavo nella giovane e giovanissima poesia di questi anni, portando in luce il meglio di quanto si muoveva, finora entro i confini delle piccole riviste di gruppo, e nella pletora dei manoscritti che inevitabilmente accalcano la lista d'attesa dei non molti editori che, da noi si occupano organicamente e con continuità di poesia. Caratteristica di questi collettivi è di offrire un «contenitore» editoriale all'opera di au¬ tori anche molto diversi gli uni dagli altri, ma qui sicuramente garantiti nella qualità. Anche questo quarto collettivo ci presenta un lavoro che merita attenzione; e tutto di autori giovani e giovanissimi fra i venti e i poco più che trentacinque anni. E non è che la qualità sia direttamente proporzionale all'età, che, anzi, poco più che ventenni sono i due, fra i sei presentati, che mostrano di sapere meglio indirizzare la propria ricerca con determinazione, e al di là di un consueto cabotaggio letterario generazionale. In tale senso merita sicuramente attenzione L'etica del maneggio del milanese Massimo Cescon, che nel riferimento ai nomi di Eliot é di Strawinslij, di Moretti e di Montale, e forse di Laforgue, ha saputo trovare un suo linguaggio denso di naturali emergenze esistenziali di figure e di luoghi in cui una fermentante liricità neocrepuscolare sa trovare una diversa profondità di interrogazione, il confine oltre cui il «racconto» poetico trova il segno essenziale che ne ingrandisce i particolari fino a dar loro evidenza; allarga a macchia la parola, fino a lasciar già trasparire il tessuto impersonale di una metafora che abbandona le sue scorie. Una caratteristica, questa delle scorie, che pare già del tutto consumata e abolita in Hylas e Philonous del ventiduenne Valerio Magrelli, che non mancheremo qui di indicare come l'autore più maturo e risoluto di questo collettivo, e come un giovanissimo della nostra poesia da cui ci si può attendere davvero molto. Si tratta di un discorso giuocato fra l'espressione di un'intensa corporalità e la misura con cui il poeta è capace di trovare una continuità fra questo universo biologìco-metafisico e il momento essenziale, concentratissimo, e in un certo senso rituale della scrittura. La poesia di Magrelli riesce cosi a ottenere una ferma unione fra il proprio discorso di poetica (o di metodo) e il proprio solitario dettato umano; fra la propria fisicità e la sua combustione in un «cielo» della mente che, come nei maggiori novecenteschi sa innestare compiutamente il vissuto sull'altro da sé. Fino a trovare la piena intensità quando, nell'istante stesso della percezione, suscita lo spessore e il calor bianco di una visione: «...E' come se avessi perso un occhio. / Ho scavalcato la notte nella luce. / Come una pianta ha sradicato il sonno / e il cielo dell'alba / è tutto una bianca cicatrice...». Ma nell'ambito della loro ricerca, meritano qui attenzione anche Capolavori del¬ la pigrizia di Luca Archibugi, nel cui pathos esistenziale e nel cui umorismo surreale si concentra il notevole. rilievo icastico di una parola fra pietrosa e metallica; come Interni di Maria Attanasio, la cui specularità è colta entro ambienti che, infine, sono immagine e prolungamento della spietata razionalità della scrittrice nel lucido nero di figurati pensieri; e come Con la sua negligenza di Maurizio Brusa, il cui livello zero di intenzionalità lirica, si popola degli innumerevoli fermenti e frammenti spezzoni di un parlato alieno, fino a dargli una preoccupata e sviante individuazione. Una situazione, quest'ultima, non tanto dissimile da quella in cui ha origine la ricerca di / sensi meravigliosi di Angelo Maugerì, di cui inizialmente, si possono cogliere predilezioni letterarie per certi eponimi dell'Ermestismo, e poi della Neoavanguardia. Ma non al punto da impedirgli rinvenimento, proprio nella serie che intitola il suo testo, del senso di un parlato alieno, di un as in tattismo sottilmente e anche elegantemente figurato, di un'espressività trasparente che sa infine coagularsi proprio contro la facilità della corrente: «... Perché esiste il contrario del vento contrario i al vento che si leva come un'eco...». Marco Forti

Luoghi citati: Milano, Montale