Cara Africa che lotti e piangi
Cara Africa che lotti e piangi I canti di David Diop Cara Africa che lotti e piangi David Diop CANTI DI LOTTA E DI SPERANZA (a cura di Cristina Brambilla) Jacsa Book, Milano - 78 pagine, 3000 lire UN singolare destino ha pesato sulla figura e sull'opera, forzatamente esile, di David Diop, una delle vod più pure dell'Africa nera, che egli cantò da una particolare angolazione dì esule e al contempo di partedpe militante. Figlio di padre senegalese e di madre del Cameroun, nipote del più celebre Alioune Diop, animatore e direttore della parigina Présence Africaine, David fu autore di un solo libro di poesie, questi Coups de Pilon, ora tradotti in italiano da Cristina Brambilla con un nuovo titolo, Canti di lotta e di speranza. L'altra sua opera, un manoscritto inedito, finì in fondo al mare insieme al poeta al largo di Dakar, il.25 agosto del 1960, per una sciagura aerea sulla quale àncora incombe il mistero, poiché il velivolo e Usuo carico umano non furono mai più ritrovati. Inoltre, la sua città natale era Bordeaux (1927), e i suoi studi furono tutti svolti in Francia, per cui ebbe dell'Africa nera una conoscenza sempre relativa, e dò rappresentò una sorta di deprivazione materna che egli cantò in una dette sue liriche più compiute: «Africa, Africa mia / Africa fiera di guerrieri nelle ancestrali savane / Africa che la mia ava canta / In riva al fiume lontano / Mai t'ho veduta / Ma del sangue tuo colmo ho lo sguardo / n tuo bel sangue nero sui campi versato...». Malgrado questo forzato esilio da una terra che sentiva profondamente radicata nel sentimento, David Diop si era «scelto» africano; e quando potè farlo, si trasferì prima nel Senegal, dove insegnò per un anno al liceo Maurice Delefosse di Dakar, poi in Guinea, a Kindio, dove Usuo acceso e romantico marxismo rintracdò le radici ideali nétta figura e nell'opera di Sé- kou Touré, inflessibile uòmo politico africano, l'unico che oppose un rifiuto all'idea gollista di una «Comunità franco-africana» che avrebbe costretto ad infiniti compromessi l'indipendenza dei paesi dell'Africa nera. Diop si era nutrito alle idee e alle istanze politiche e dvilidi Présence Africaine, una rivista che nella Parigi degli Anni Cinquanta e Sessanta aveva significato il luogo ideale di raccolta di tutti i giovani intellettuali neri che studiavano e operavano alla Sorbona: di li, a quelle matrici recuperate, aveva attinto per sviluppare un discorso che si richiamava a tre poeti importanti velia stòria della letteratura africana, Leon Damasi della Guiana, Aimé Césaire, martinicano, e Léopold Sedar Senghbr, senegalese. Soprattutto il verso e l'impegno dvile di Césaire agirono in modo determinante sulla sua poesia, forse per quella comune natura di sradicati, di stranieri in patria, che queste due grandi vod dell'Africa alimentarono nell'animo, unitamente allo spirito profetico, nei confronti di una liberazione ancora di là da venire, ma profondamente filtrata nel verso e nella coscienza. La distanza dalla terra ancestrale, tuttavia, non sfi gnificòper Diop emarginazione tematica, ma al contrario convergenza su alcuni motivi conduttori che di continuo e quasi con ossessività ricorrono ih questa poesia così diversa, ih fondò, da quella uh po' standardizzata di tanti poeti africani. L'atteggiamento verso gli avi come presenza costante e invincibile, là concezione poetica della donna, magico emblema di forza e di ritmo; mediatrice struggente del rapporto fra l'uomo ed il cosmo, unica capace di restituire al nero quella identità compressa e smarrita fra le spire della dvtttà alienante e straniera, il mito del sàngue infine, considerato come vitale essenza, punto ideale di raccordo, anch'esso, di un passato doloroso e servo da riscattare nella speranza di un futuro libero da tante mortificazioni umane e c. .li. Per esprime, e queste che furono le strutture portanti della sua poesia, Diop si servì di uno stile così originaie, da configurarsi come eleménto essenziale della sua creatività; una parola poetica nervosa, scattante, sprofondata nei singulti e capace di riemergere dal fondo della coscienza carica di intonazioni spigolose e mordenti: «Tu che ti prostri e piangi / Tu che muori un giorno cosi senza sapere / Tu che lotti e vegli per il riposo 4elTAltro / Tu che più non guardi col sorriso negli occhi / Tu fratello dal volto di paura e d'angoscia / Alzati e grida: NO! ». Una poesia per la vita che dal fondo della coscienza individuale sa farsi collettiva ed emergere dagli abissi dell'inconscio per assumersi la funzione di mediatrice diuna grande speranza. Walter Mauro
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