Inventiamo una lingua l'italiano per tutti

Inventiamo una lingua l'italiano per tutti A colloquio con De Mauro: intellettuali e cultura negli Anni Settanta Inventiamo una lingua l'italiano per tutti Parlare chiaro diventa sempre difficile - Scriviamo libri che più siano compresi da chi ha solo la terza media - Non snobbiamo il quotidiano popolare - n rispetto dei dialetti e i nuovi programmi nella scuola dell'obbligo TORINO — Parlare e capirsi sta diventando sempre più complicato: proliferano i linguaggi speciali della scienza e della tecnica, ognuno dei quali si configura come un universo a sé; è in atto un rimescolamento demografico che porta alla ribalta nuove nazioni e nuove lingue, masse enormi di persone fino a ieri emarginate e sconosciute; i mass-media, la tv in particolare, ci riversano addosso ogni giorno questi messaggi Ma pochi si preoccupano di verificare se questo capitale di informazioni arriva ai destinatari e si traduce in conoscenza; quasi nessuno pensa a sperimentare forme più efficaci di comunicazione per educarci a comprendere ciò che ascoltiamo o leggiamo e ad esprimere ì nostri bisogni e le nostre idee. Così rischiamo di vivere in un mondo sui quale riceviamo sempre più notizie e che pure ci rimane misterioso. Tullio De Mauro spiega pacatamente questi concetti a un'assemblea di operatori sociali e di insegnanti delle. 130 ore, che l'editrice Giunti ha organizzato a Torino, nell'ambito della Tecnodidattica, per presentare una nuova collana di dispense sulla «comunicazione orale e scritta», coordinata da Duccio Demetrio. Docente di filosofia all'università di Roma, De Mauro è traduttore di Saussure e studioso di Wittgenstein, di cui ha fatto proprie concisione e chiarezza d'espressione. La sua opera più nota. Storia linguistica dell'Italie unita (Laterza 63) ha rivelato il «paese dei dialetti*, intrecciando, sulla scia di Gramsci, questione delia lingua e storia delle classi subalterne. Da anni si batte, come studioso e come multante (è stato tra l'altro assessore alla cultura della Regione Lazio, indipendente nelle liste pei), per una «educazione linguistica democratica» che garantisca a tutti gli strumenti del comunicare. ET questa, come diceva don Milani, la condizione di base per una cultura di massa partecipata, perché la lingua non sia più un «contrassegno di classe». Da questo particolare osservatorio De Mauro ha ultimamente analizzato i mutamenti della cultura italiana negli Anni 70: un saggio di una sessantina di pagine che sta per essere pubblicato da Laterza nel volume Dal 68 a oggi: come siamo e come eravamo, insieme a interventi di Colletti, Gambino, Giorgio Galli, Ruffolo, Nora Federici, Carla Ravaioli, Borgna. Seduto su una cassapanca, dopo la riunione, nella luce fioca di un'anticamera a Palazzo Chiablese, ci riassume i termini di questa sua ricerca. •Ho individuato nella cultura di questo decennio due essenziali cambiamenti. Primo: si è ormai affermata e diffusa la convinzione che la cultura non coincide più con le belle lettere, il sapere umanistico-letterario, quello tradizionalmente condensato e trasmesso dalla scuola, bensì comprende a pieno tìtolo il sapere scientifico-tecnologico, operativo. Più in generale si è capito che ogni CttpSmistm di organizzare € comunicare la propria esperienza è una forma di cultura. Ho verificato, dati alla mano, questa ipotesi esaminando pagine di giornali, cataloghi di case editrici, testi scolastici, ecc. Ho usato come cartina di tornasole anche Tuttollbrì dove Ut saggi- _ stica e Informazione scien- " tifica si sono conquistate uno spazio gradualmente maggiore, anche se ancora minoritario». «Secondo grosso cambiamento: si sono accorciate le distanze culturali tra i diversi gruppi sociali, c'è stato un a nicchia, men to culturale di massa. Televisione, scuola, esperienze politiche hanno allargato i confini della cultura, coinvolgendo nuovi soggetti sociali, avviando iniziative nuove e promettenti». — Dunque il suo bilancio è positivo? rio non sono catastrofista. non mi sembra ragionevole gridare allo sfascio. Una crescita culturale c'è stata. Mi preoccupa invece il vuoto della programmazione pubblica. Per dirla in una battuta: i privati sono molto bravi, le istituzioni non funzionano, sono abbandonate in condizioni selvagge. E non per ragioni di denaro: per la cultura spendiamo ormai quanto gli altri paesi europei, ma spendiamo male». —Certo i privati sono molto più oculati nei loro investimenti: ma i loro prodotti rispondono ai bisogni culturali del paese? Ad esempio, l'editoria ha le carte in regola? «Giriamo le edicole e constatiamo quante persone vadano in cerca di dispense, gente comune che non ha molti quattrini. Comprano l'enciclopedia della medicina, la storia delle guerre mondiali, il corso di lingue straniere: esprimono il bisogno di una maggior consape- volezza storico-scientìfica. Se queste dispense vanno forte è perché l'editoria di qualità produce una saggistica "alta" scollata dalla possibilità di comprensione del lettore medio». Torna il vecchio discorso, sempre nuovo, sul «parlar chiaro». De Mauro ricorda le lettere sempre più frequenti ai quotidiani, soprattutto di sinistra, in cui i lettori si lamentano di non capire abbastanza: •E' un guaio di noi intellettuali. Non pensiamo mai abbastanza quando parliamo e scriviamo a quali e quante persone dobbiamo rivolgerci e qual è il modo migliore per farlo. In questo senso non abbiamo ancora imparato la lezione degli illuministi. Dobbiamo scrivere libri che parlino anche a chi ha solo la terza mediai. Lui ci sta provando. Ha avviato per gli Editori Riuniti un progetto al quale collatmrareranno esperti ad alto livello: 200 libri di base, scritti con un vocabolario che non superi le 4000 parole, per spiegare concetti, fatti e problemi del mondo contemporaneo, partendo sempre dalia realtà italiana di ogni giorno. E* questa, a suo parere, la premessa necessaria (non certo la condizione sufficiente) per avere il «libro popolare». Viene spontanea l'associazione al quotidiano popolare. De Mauro è stato tra i pochissimi a «parlare bene» dell Occhio, ha diffidato dal guardare con snobismo l'esperimento di Costanzo. Perché questa voce solitaria? «Abbiamo in Italia alcuni bravi giornalisti che scrivono chiaro e facile. Ma è un loro merito personale. Nessun giornale, come tale, si era posto davvero il problema del linguaggio popolare. Chi lo ha fatto spesso è andato a naso. Per questo L'Occhio merita attenzione. Intanto, dei dati che conosco, non sembra abbia provocato abbassamento di vendite per altri quotidiani. Quindi ha conquistato dei tradizionali "non lettori". Quanto ai contenuti, ho l'impressione che molti si fermino all'immagine del giornale, ai soli titoli, senza leggere i testi. La stessa informazione politica è meno scandalistica di quanto molti temevano, comunque migliore di quella propinata dai suoi cugini europei, come il Sun, il Daily Mirrar, la Bild Zeitung. Facciamo male a sottovalutarlo, come sbagliamo a non leggere con cura Famiglia Cristiana e Sorrisi e canzoni. Se vogliamo davvero comprendere gli italiani e farci comprendere...». E' un discorso schietto, che può lasciare l'amaro in bocca a chi in questi anni ha parlato di controcultura di massa. De Mauro precisa: «Le controculture sono venute alla ribalta come opposizione alle pretese della cultura libresca di essere la cultura. Nel momento in cui la cultura è diventata pluralista e stratificata, le culture alternative hanno acquisito dirimo di cittadinanza, non si sono spente nel riflusso, ma sono divenute parte della cultura ufficiale». Gli esempi rimangono sottintesi: Yungerground dalle cantine è arrivato in televisione, sulla stampa, e le lotte operaie non si fanno più solo controcorsi, la sperimentazione nella scuola c'é entrata per legge. Proprio la scuola è considerata da De Mauro uno dei fronti di lotta più importanti per dare radici forti ai mutamenti culturali di questi anni. Come linguista egli giudi¬ ca positivamente i nuovi programmi della scuola media, perché hanno fatto piazza pulita dei difetti e dei limiti della tradizionale «pedagogia dell'imitazione». La nuova bussola dell'educazione linguistica diventa l'uso reale della lingua, non più la regola di grammatica. L'obiettivo è la «comunicazione funzionale», non più il bello scrivere. Dall'inizio del secolo — ricorda De Mauro — gli esercizi di «comprensione e produzione del testo» sono stati sostituiti dal «tema di critica estetica». Qualcuno ancora oggi non sa immaginare una scuola in cui si scrive senza fare temi e si parla senza essere interrogati. Invece dobbiamo perdere l'abitudine di esprimerci a vuoto, su comando, anche se non c'è niente da dire, senza badare se il nostro discorso interessa. C'è un altro grosso passo in avanti nei nuovi pro¬ grammi: si rifiuta «l'azzeramento del patrimonio linguistico» dell'allievo e si parte del presupposto che ogni ragazzo arriva a scuola con una sua lingua, che è spesso il dialetto. De Mauro snocciola dati che riporta ormai in ogni suo scritto sull'argomento (l'ultimo, in collaborazione con Mario Loco, esce in questi giorni dagli Editori Riuniti e si intitola proprioLingua e dialetti): •Soltanto 25 italiani su cento usano sempre in ogni occasione l'italiano, 75 su cento usano il dialetto e una grossa fetta di questi, più o meno il 25% dell'intera popolazione, usa solo uno dei dialetti. Da questa realtà bisogna partire, senza ignorarla o calpestarla, per portare l'allievo ad impadronirsi della lingua nazionale. E per far questo l'insegnamento tradizionale della grammatica è inutile. Come è inutile imparare a memoria la statica dei liquidi per saper nuotare». E il parlare sgrammaticato dei giovani? Li si accusa addirittura di afasia. De Mauro sembra un po' stufo di trovarsi tra i piedi una simile obiezione. Cosi, scendendo la scalinata di Palazzo Chiablese, odore di vecchio Piemonte, si ferma un attimo, cerca il tono giusto per controbattere e, con un leggero accento napoletano, sbotta: «De Amicis all'indomani dell'Unità si lamentava che la borghesia torinese stava inquinando la lingua italiana, solo perché usava espressioni che poi l'egemonia industriale del Piemonte avrebbe fatto diventare di uso nazionale. Non ripetiamo l'errore dei puristi. Adesso i giovani parlano, magari male, dicono tanti cioè e qualche cazzo, ma, buon dio, parlano. Nelle riunioni c'è più gente che si alza e parla». Anche questo è un mutamento culturale degli Anni 70. Luciano Gente

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