Debray: compagni, siete borghesi di Alberto Papuzzi
Debray: compagni, siete borghesi Debray: compagni, siete borghesi Regia Debray LETTERA Al COMUNISTI Vallecchi, Firenze pagine 170, lire 4500 «c; OMUNISTI: se me la prendo con voi è perché ve ne voglio; in spagnolo si usa una sola parola per dire amare e volere, e io vi ho amato». Così scrive Regis Debray, nelle prime pagine di questa lunga, rabbiosa ma coerente Lettera ai comunisti, pubblicata in Francia nel 1978 e tradotta ora da Vallecchi. Si parte dunque da un amore-odio (quél volere del traduttore italiano sta in realtà per volercela, avercela): la posizione di Debray è quella di un •compagno» che si sente tradito. Infatti, scrive: *R solo partito francese al quale abbia mai aderito è stato il partito comunista e l'ho lasciato insieme alla Francia, nel tentativo di realizzare altrove gli ideali che mi ci avevano condotto». E più avanti: «Io mi rivolgo a voi a causa delle vostre radici e della vostra concezione del mondo... Il movimento comunista internazionale non mi è estraneo; io riconosco di essere marxista». Ma chi è Regis Debray? Quarantanni, autore di recente di una lunga intervista 1 con Santiago Carrillo e di una polemica inchiesta, sulla funzione degli intellettuali, vincitore nel 1977 del Prix Fémina con •La Neige Brulé», dieci anni fa si era parlato di lui in tutto il mondo: legato a influenti famiglie borghesi, aveva soggiornato a Cuba diventando amico di Castro e poi era stato arrestato in Bolivia mentre tentava di portare aiuto a Che Guevara. Era rimasto in carcere per molti mesi, diventando uno dei miti della generazione del Sessantotto: impersonava l'intellettuale che si nega per dedicarsi interamente alla lotta. Di quell'esperienza, dell'eco che suscitò, del suo significato ideale e politico, questa Lettera ai comunisti sembra quasi una testimonianza e una continuazione. Gli argomenti sono tutt'altri — là era una questione di internazionalismo e di sostegno alla guerriglia rivoluzionaria, qui si tratta dei problemi del partito comunista francese e della situazione della, Francia —' ma abbastanza simili sono le premesse e anche gli obiettivi. Debray si ripropone come •rivoluzionario puro», come intellettuale che lotta, contro la borghesia e contro lo Stato, per un rovesciamento del potere. In alcuni punti di questa sua lettera-confessione, egli contrappone i •programmi» alla •pratica». Uno dei capitoli del libro sentitola: •Programma, ancora programma, sempre programma»; e più avanti: •Il programma: uni nevrosi senza precedenti». Nello stesso capitolo, si può leggere: •Siamo seri: la vita dei popoli è questione che concerne la pratica - la loro pratica». E cos'è la •pratica»? Eccolo: •La storia vivente non ha mai potuto, pertanto, essere ridotta a programma, e le rivoluzioni che si fanno sulla carta, servite in capitoli e paragrafi, dormono ancora nel cos'i setto». I A questo punto, non è dif¬ ficile immaginare che cosa Debray abbia da dire ai comunisti francesi. L'accusa — usando un linguaggio di vecchia scuola — è di imborghesimento. Cioè, eccesso di fiducia nella democrazia, nelle istituzioni e apparati dello Stato. Nel caso del Cile, ci sarebbe stato *un rispetto della legalità fino al martirio». Per le nouveaux philosophes e il loro garantismo, ostenta disprezzo. Schematizzando un poco, si potrebbe parlare di una posizione leninista, con una punta di ÌTtrotskysmo, ma anche con ' una fede sessantottesca nel ruolo e nell'avventura individuali. Inevitabile lo scontro tra questa concezione e le questioni della democrazia e della libertà. Debray finisce per schierarsi sul fronte del realismo politico, della necessità ideologica. Giunge a giustificare Stalin, allineandolo con i Marat e i Robespierre. Inventa una formula: •reversibilità dello straordinario», cioè diritto dei rivoluzionari a usare metodi non democratici purché sia garantito il ritomo alla >democrazia in condizioni di normalità. Queste pagine sono le più vive e interessanti, l'autore essendo premuto dalle contraddizioni tra la sua rigidità marxista-leninista e le aspirazioni alla libertà e alla democrazia. L'impressione è che Debray ne esca sconfitto: le contraddizioni lo avviluppano come in una rete. Resta il suo coraggio, di af- frontare oggi, con una posizione non certo demagogica, un •mito» del marxismo che gli stessi marxisti danno per defunto. Alberto Papuzzi
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