Si può rinnegare il padre per combattere il razzismo di Ruggero Bianchi

Si può rinnegare il padre per combattere il razzismo Un romanzo affronta con coraggio il tema dell'«apartheid» razziale Si può rinnegare il padre per combattere il razzismo Nadine Gordimer LA FIGLIA DI BURGER Traduzione di Ettore Capriolo Mondadori, Milano 369 pagine, 6500 lire OCCORRE a volte un singolare sforzo mentale per rendersi conto che l'inglese non è soltanto la lingua degli scrittori faritannici e statunitensi, ma anche di quelli canadesi (che la dividono con il francese), australiani, sudafricani. Esiste una sorta di «terzo mondo anglofono» che anche in Italia è ormai oggetto di attenzione e di studio, come conferma la nascita recente delle Associazioni Culturali Italocanadese e Italoaustraliana o lo specifico interesse per le «altre» letterature di lingua inglese da parte di numerosi istituti universitari. C'è già chi parla — e a ragione —della necessità di inserire tra gli insegnamenti universitari lo studio di queste culture come disciplina autonoma rispetto a quelle tradizionali di letteratura inglese e americana. Nomi come Patrick White o Alan Paton. già noti al lettore italiano, dimostrano che ne vale la pena. A una di queste culture emergenti, la sudafricana, appartiene la cinquantenne Nadine Gordimer, già concorrente quest'anno al Nobel, vincitrice di numerosi premi, pluritradotta e anche pluricensurata in patria, dove alcuni suoi libri sono stati proibiti dal governo, mentre di altri è stata autorizzata la pubblicazione con anr : di ritardo. Scrittrice impegnata, la Gordimer si presenta in Italia con La figlia di Burger, un denso romanzo che riesce ad affrontare con coraggio e passione non soltanto il tragico problema dell'apartheid ma anche quello, per tanti versi assai spinoso, dei rapporti tra comunismo e Terzo Mondo. La tesi dell'autrice (bianca) pare abbastanza esplicita: per comprendere e aiutare davvero una minoranza in lotta, occorre far parte di quella minoranza, per lottare contro il razzismo sudafricano occorre anzitutto essere neri «di pelle e di anima». I bianchi «iUuminati» possono impegnarsi fino al sacrificio di sé, della propria vita e della propria famiglia, ma non possono, veramente, «capire». Nemmeno i comunisti, giacché il marxismo è una «filosofia bianca», occidentale, inapplicabile al mondo nero come qualsiasi altro sistema di pensiero non elaborato autonomamente dalla gente di colore per se stessa. Per lottare con e per i negri, i progressisti bianchi devono accettare anche i lati più amari della negritudine, rinunciare alla propria vocazione alla leadership, alla consolazione della gloria nella sconfitta, alla convinzione di saper «insegnare», alla certezza, addirittura, di essere utili alla causa. In un contesto di spietata apartheid, la presenza della figlia di Burger è, insomma, più vitale di quella di Burger stesso. Burger è l'eroe di tipo occidentale, un medico come i tanti presentatici per anni da Cronin con. in più, una coscienza e una cultura di stampo rigorosamente marxista. L'uomo che diventa in qualche modo figura pubblica, e nel momento in cui viene condannato all'ergastolo pronuncia la sua ultima arringa, incatenando con la sua eloquenza magnetica giudici e difensori, sostenitori e avversari. Ma questo lucido e dialettico retore rivoluzionario si lascia sfuggire il punto fondamentale: per lui i negri sono ancora «gli altri», sicché agli occhi dei suoi detrattori egli è soltanto un boero traviato, un afrikaner che ha scelto la criminalità e il tradimento. Per quelli che si prefigge di proteggere e di redimere, non è che l'esponente di un'altra razza che si illude di sapere cosa vogliano i neri, al punto di arrogarsi il diritto di scegliere per loro Tennesima variante di un sistema di vita occidentale. La figlia di Burger è diversa. Non più nobile né più eroica, anzi, più egoista e scialba. Ha scelto la quotidianità banale e spicciola contro le tentazioni dell'e- roismo e della retorica, una vita anonima e neutra vissuta giorno per giorno contro la grandiosità di una visione teorica che può affascinare i membri di Amnesty International ma non persuade chi conduce quell'esistenza di squallore e di lotta silenziosa da generazioni e da secoli. Rosa Burger — che si trascina dietro, nel suo stesso nome, un doppio Edipo ideologico: Rosa; come la Luxemburg; Burger, come suo padre, l'ergastolano morto' in carcere per le sue idee libertarie — deve, per potersi ribellare con i neri, ribellarsi anzitutto contro i bianchi. Ribellarsi su un piano elementare e viscerale, in primo luogo: «rinnegare» la famiglia, gli amici, il padre. La morte di Burger sarà una sofferenza ma insieme una liberazione, l'inizio di una quest condotta in Sud Africa, in Europa e poi di nuovo in Sud Africa, alla ricerca di se stessa e del proprio ruolo, un ruolo non da assumere ma da essere. Logico quindi che la sua prima scelta sia l'anonimato o addirittura l'assenza. Se vuoi essere nero devi in primo luogo cessare di esistere, ammettere la tua invisibilità (si pensi a Invisible Man di Ralph Ellison), come le migliaia di neri vissuti e morti come Burger, ma non santificati, non canonizzati alla grandezza di martiri dai bianchi libertari d'Europa, com'è toccato a Burger. Lasciare il rivolu zionarismo romantico coltivato nei salotti anglofrancesi, dove i pochi profughi russi superstiti si mescolano agli epigoni integrati dei gruppuscoli sessantotteschi, e optare per valori e sistemi più difficili da comprendere e da difendere, perché estranei alla tua cultura e alla tua ideologia, assenti nel patrimonio della tua razza. Qui, le tesi di Nadine Gordimer paiono accostarsi a quelle di Richard Wright, intrappolato anch'egli — ma da negro — nella dialettica contraddittoria e confusa dei rapporti tra razza e classe e, più tardi, invischiato nell'incandescente logorrea intellettualistica dei salons parigini. Ma, sensibile ai nuovi fermenti della vita culturale e politica degli ùltimi vent'anni, la scrittrice tende a prendere le distanze da simili modelli (anche se l'ombra di Henry James aleggia in qualche modo nella sua immagine di una vecchia Europa disincantata e cinica). La Gordimer è nuova nel modo di narrare, anzitutto, ove adotta una tecnica dì scaltra alternanza di oggettivo e soggettivo, di partecipazione e di distacco, di presenza e d'assenza, di prima e terza persona, con saltuari sconfinamenti in uno stile semiepistolare, come nelle léttere-meditazionirivolte a un fantastico boy friend misticamente dispersosi nelrimmensità dell'Oceano. Ma anche nel groviglio di temi che solcano la narrazione e che sembrano accettare il nuovo (o ormai vecchio?) postulato della politicità del privato. Per fare la rivoluzione coi neri, si è detto, occorre «essere» come i neri, identificarsi senza riserve. E quindi anche muoversi in una dimensione sempre meno eroica e sempre più calata nella routine dell'immediato, per necessità più che per scelta: l'amore, il sesso, il lavoro a orario più o meno fisso, il vivere intensamente un?esistenza priva di intensità e ben poco vivibile. Vegetare forzatamente nella banalità del quotidiano non significa, alla resa dei conti, misurarsi con (e rifiutare) una cultura «altra», di riporto, trasmessaci da un diver_ so «quotidiano» in cui siamo cresciuti, passando da un'infanzia inconsapevole a una maturità condizionata, prerìeterminata e anch'essa inautentica e non nostra? Non significa, insomma, cambiare il colore della pelle? Quale sarà la nuova pelle di Rosa, la Gordimer in fondo non dice. Ma un fatto è certo, al di là del paradosso. Nessuna commissione per i diritti dell'uomo, ' nessuna inchiesta di Amnesty International, si occuperà mai della figlia di Burger. E questo, secondo l'autrice, può già significare, forse, avere una pelle più scura. Ruggero Bianchi Nadiné Gordimer

Luoghi citati: Europa, Italia, Milano, Nomi, Sud Africa