Un giallo che più giallo non si può di Franco Lucentini

Un giallo che più giallo non si può Notizie da Frutterò e Lucentini, mentre esce «A che punto è la notte» Un giallo che più giallo non si può TORINO — L'ultimo romanzo «giallo» del duo Frutterò & Lucentini è appena arrivato in libreria con il titolo A che punto è la notte (Mondadori editore, pagine 602, lire 8000), ma da una decina di giorni quotidiani e settimanali hanno incominciato a distribuire ed a raccogliere giudizi su questa fatica narrativa che è costata ai loro autori sette anni di lavoro. Oreste Del Buono, in un suo intervento, ha subito precisato che non gli sembra corretto definire gialli i romanzi della coppia torinese: «H giallo — ha scritto —nel loro caso, è solo un pretesto, uno spunto», aggiungendo che «c'è nei loro libri un sovraccarico di ambizioni» e che «se fossero veri scrittori di gialli non ci metterebbero sette anni tra un romanzo e l'altro», quanti sono passati da La donna della domenica. Franco Lucentini e Carlo Frutterò hanno già letto i primi interventi sul loro libro e se ne stanno ora protetti e sapientemente schivi nella bellissima casa di Lucentini appesa su piazza Vittorio, foderata di libri, quadri e tranquillità. Insieme continuiamo a leggere quanto ha scritto Del Buono: «Simenon è un vero scrittore di gialli, uno che scrivendo un giallo al mese non interrompe il suo rapporto con i lettori». — Cosa he pensate di questa affermazione? ' «Con Del Buono c'è una amichevole polemica —• risponde Lucentini — fin dai tempi de La donna della domenica». — Ma Del Buono era intervenuto sul vostro libro in maniera attenta e voi gii avete dato del coglione. > «Franco — chiede Frutterò — ma è proprio véro che gli abbiamo scritto che era un coglione?». Lucentini, paziente, gli risponde di sì, ma come si può dare del coglione solo ad un amico, ad uno a cui si tiene: «Il motivo è semplice, quando uscì la Dònna èrano arin| che si parlava del romanzo italiano come di un cadavere, ucciso dallo sperimenta- ììsmo e dai romanzo di memoria; Lui ci aveva incoraggiato a scrivere un vero romanzo, con dna vera storia, con i personaggi che entravano e uscivano. Dopo ebbe delle . riserve, arricciò! il naso». — Disse che Simenon era un vero scrittore di romanzi «gialli» e voi no. «Noi siamo dei grandi ammiratori di Simenon — risponde Lucentini — anche se pòi in lui ci sono cadute di tono. Forse anche a noi riuscirebbe un romanzo d'atmosfera come i suoi, ma bisognerebbe che Carlo e io andassimo in tuia piccola città che non conosciamo. In questo modo forse potremmo raggiungere il poetico. Già in A che punto è la notte c'è quella poesia della periferia che amavano i crepuscolari o Mallarmé o Borges. La stessa che ritroviamo nei quadri di Renzo Biasion». - — La poesia di Simenon non vi intéressa. «Noi siamo artigiani Carlo no, inaiò—elìcè Lucentini — sono anche un bricoleur. Noi lavoriamo con le mani, un romanzo è come un tavolo, bisogna costruirlo facendo attenzione a che non venga sbilenco. Quando descriviamo una strada, guai se sentiamo, in sede di lettura, che è un cliché. I colori, gli odori, la .musica, devono e& sere véri.~Qùèsto e il nostre atteggiamento di rigore verso il racconto, verso la prosa». —Niente poesia? «Se la poesia viene, allora è un di più. In A che punto è la notte c,'è una Torino nel fango, sotto la neve, una periferia che è archeologia industriale. Sì, è suggestiva, ha una suggestione poetica. Umori e sentimenti su questo sfondo archeologico sono giustificati. Ma noi scriviamo in una città come Torino, non come Simenon dalla Svizzera». Anche «l'Unità», prima ancora dell'uscita del libro, vi ha dedicato un vistoso articolo di terza pagina, in cui Roberto Di Caro grida allo scandalo per l'eccessiva e «ultratempestiva» propaganda fatta dalla informazione culturale ai «due eretici modello Fiat». In coro, alzandosi in piedi, ma senza agitarsi Frutterò e Lucentini sono di replica pronta: «Con l'articolo dell'Unità, non c'entriamo niente e non ne sapevamo niente. Tutto è stato combinato alle nostre spalle tra l'Ufficio Stampa della Mondadori e il quotidiano del pei, che hanno montato il solito scandalo moralistico per ingigantire le vendite. L'idea comunque non ci trova d'accordo. Certi espedienti promozionali troppo scoperti, a parte la loro dubbia efficacia, sono sempre lesivi della dignità dello scrittore». — É' vero che il romanzo era nato come una radiografia del terrorismo? «Ci siamo sempre tenuti lontani dall'attualità L'attualità, in un romanzo, non interessa nessuno. Con quanto accade bisogna mettere un diaframma. Sullo .sfondo si, ci sono gli avvenimenti. Ma guai se li avessimo lasciati venire avanti. I nostri romanzi, La donna della domenica e A che punto è la notte li abbiamo scritti perché ancora si possano leggere fra cinquanta, cento anni: come si fa con / tre moschettieri». — In questo romanzo l'oggetto misterioso sembra essere la parola gnosi «E' cambiato il clima. Nella Donna tutto si svolgeva in tono mondano. Qui di mondano c'è niente, c'è poco. C'è una attenzione più vasta alla città e ai suoi problemi Avevamo avvertito, prima ancora di cominciare la storia, che il clima intorno a noi era cambiato. In primo piano c'era un gran via vai di faccende religiose, una ventata di irrazionalismo, dovuto anche ad un eccesso di sballato razionalismo. Volenti o nolenti assistevamo ad un gran risveglio del metafisico. Tutti questi segni messi insieme ci hanno portato a creare come contenitore o punto d'incontro della nostra storia la parrocchia di S. Liberata e la figura ambigua di don Pezza, un misto di lugubrità e follia, cosi caratteristica a Torino». — La gnosi è un pensiero teosofico religioso, di impostazione dualistica, è la convinzione che solo un piccolo numero di eletti possa essere oggetto di una rivelazione divina... .«Don Pezza — dice Frutterò — è uno gnostico, un prete, che passa da eccessi comunitari a eccessi diciamo: elitari. E' un personaggio che ci si è trasformato, irrobustito fra le mani. E questo anche grazie all'osservazione quotidiana. Noi poi non eravamo esperti in. gnosi, ma, siccome ci interessa tutto, abbiamo indagato, ci siamo documentati Ci sono più gnostici di quanto si creda. Quello che è divertente poi è vedere l'effetto comico che fa la gnosi applicata ad un materassaio, ad un erborista». —Anche alla Fiat? «Abbiamo visto che l'organigramma della setta è uguale ad un moderno organigramma di una multinazionale. Per dei giallisti come noi era un invito a nozze». — Sembi.* curioso, ma in questi ultimi tempi la notte è diventato un personàggio importante nei titoli del romanzo italiano. Dopo Se una notte d'inverno un viaggiatore di Calvino ora A'chepunto è la notte. «Stiamo andando verso gli Anni 80. Anni minacciosi. Ma era da tempo che li si ve-* deva venire: esplosione de¬ mografica, petrolio, aggressività, millenarismo. In questi lunghi anni a tavolino con Carlo ci dicevamo: basta* che Babilonia non venga giù prima che noi si finisca il libro. In mente avevamo una profezia di Huxley fatta negli Anni 50. Diceva che Prima e Seconda Guerra Mondiale, compresi I campi di sterminio, sarebbero "state Belle Epoque rispetto agli Anni 80». — Chi è dei due che in realtà scrive? «Tutti e due. Magari lo stesso capitolo. Poi si confronta, si cambia». — Non vi offendete mai ; tra di voi? O non rimanete male, a turno, se uno lo stesso capitolo l'ha scritto meglio? «Abbiamo ormai in decenni che lavoriamo insieme, acquisito la tecnica dell'alter ego. E funziona». — E' come se a scrivere allora fosse una terza persona? «Ognuno di noi — risponde Lucentini.— è diverse persone. Tra .noi un giorno l'ispirazione può averla uno, un giorno l'altro, secondo chi di noi due ha digerito discretamente. A volte uno di noi scrive bene, a volte male.' , A volte va troppo liscio e al- / lora deve fare attenzione. Da solo uno non vede mai con precisione, quello che ha scritto, ma ciò che voleva scrivere. E allora se c'è un altro ti mette in guardia, si trasforma nel lettore. Noi ci critichiamo l'un l'altro, ma contai stessi criteri con cui critichiamo noi stessi. In due si scrive meglio». — Come vi sentite dopo questi sette anni, a romanzo finito? «Svuotati Con un senso della vanità del tutto. Finché stavamo protetti nel romanzo ci credevamo al sicuro. Ci proteggeva dall'esterna degradazione quotidiana, dal declino dei tempi. Ora* che ne siamo emersi ottimi¬ sèIcfcCgslgmmaondd ; , / sti non siamo, il mondo non è proprio un bel panorama. Il vero guaio è che l'attualità ci secca, non è piacevole». — Siete già pronti a tuffarvi in un nuovo romanzo? «Abbiamo paura di aver commesso questo guaio. Carlo ha fatto una passeggiata vicino a Roma, ma così senza "secondi fini" e me l'ha raccontata. Ci siamo guardati negli occhi e abbia-; mo capito di aver fatto il primo passo. Ma se sarà così, addio alle seicento pagine, ormai abbiamo dimostrato a noi stessi di essere in grado di costruire macchine complesse; no, sarà uri libro di duecento, ma fatto con la stessa cura e diligenza. Sarà il nostro nuovo esperimento». — Perché non volete parlare della trama del libro? «Bisogna leggerlo — dice Frutterò —. E con un avvertimento ai lettori: ci sono ' molti colpi di scena, la preghiera è questa, ogni lettore sia abbottonato, non ne sveli nessuno a chi gli sta vicino». Chiusi nel cartone della copertina i nuovi personaggi di A che punto è la notte aspettano gli occhi del lettore per rimettersi velocemente in cammino: una misteriosa Volkswagen verde che corre squassate periferie, un editore con barba nera che ha sempre la forchetta nel piatto altrui lo squallido e tenebroso ingegner Vicini. E poi: il furioso don Pezza, abitatore non solitario della barocca chiesa di S. Liberata, il potente dispensatore di briciole agli uccelli dott; Musumanno, simbolo dei potere. E tanti altri ancora: mafiosi e delinquenti carabinieri e poliziotti, compreso il già noto commissario Santamaria, in una girandola di avventure e di suspense che dà la gioia di una buona torta, di un bel film, di un comodo paio di stivali di un camino che tira bene. Nico Orengo ' »• «In via dei Rododendri non c'era nessun rododendro. Vent'anni prima, dopo molti viaggi-studio nei paesi scandinavi e in Inghilterra, un gruppo di architetti e urbanisti aveva deciso di costruire all'estrema periferia di Torino un quartiere modello, dove due o tremila cittadini fra i meno abbienti potessero vivere, per una somma alla portata dei loro guadagni, in mezzo alla natura. Per questo esperimento era stata prescelta la zona di una vecchia cascina (subito demolita) denominata «Il Brussone», e su quei campi e prati e orti tra la Dora e la Stura erano sorte case "a misura d'uomo", ossia a tre piani, di mattoni e calcestruzzo a vista, senza ascensori e con terrazzetti chiusi da alte grate di cemento, dietro le quali gli inquilini avrebbero dovuto stendere ad asciugare la biancheria, come facevano i loro omologhi flagellati dai venti artici (...)». « Periferia con casa in costruzione», olio di Renzo Biasion Franco Lucentini

Luoghi citati: Babilonia, Inghilterra, Roma, Svizzera, Torino