Il moralista Döblin non ha più veleni
Il moralista Döblin non ha più veleni Ristampato il romanzo «Senza quartiere» Il moralista Döblin non ha più veleni Alfred Dòblin SENZA QUARTIERE Mondadori, Milano 351 pagine, 2500 lire IN anni recenti i lettori italiani non hanno avuto molte occasioni di sentir parlare di Alfred Dòblin (1X78-1957). La riproposta di quello che è unanimemente considerato il suo capolavoro, Berlin Alexanderplatz (Rizzoli, 1963) è passata inosservata, né sono valse a risollevarne le sorti alcune belle pagine di Walter Benjamin (in Avanguardia e rivoluzione, Einaudi 1973). Lì Benjamin spiegava come proprio in Berlin Alexanderplatz Dòblin avesse superato i problemi di una delle tante e conclamate «crisi del romanzo» inventando un'epica fondata sul principio stilistico del montaggio. La vita del piccolo furfante Franz Biberkopf, che consuma la sua esistenza sottoproletaria nel breve orizzonte di una piazza berlinese dragata dai bulldozer della speculazione e scossa dai convogli del metrò, è raccontata attraverso un meticoloso collage di documenti autentici: stampati piccoloborghesi, canzoni popolari di successo, annunci economici, notizie di cronaca, fatti e fattacci di quél 1928 che stava sprofondando nell'abisso della Grande Depressione. Un dadaismo alleato con la vita quotidiana, osservava Benjamin, manifestamente affascinato dalla tecnica dobliniana di riappropriarsi della incontaminata vitalità del racconto orale, pilastro di ogni epica, con il riciclaggio di materiali «bruti», quasi biologici. E' difficile riconoscere questo Dòblin spavaldo e aggressivo nel ritratto dell'esule smarrito che ci balza incontro in alcune delle pagine più malevole del Diario di lavoro di Brecht (Einaudi, 1976). Brecht e Dòblin si erano conosciuti (e moderatamente stimati) a metà degli Anni Venti, ma ebbero modo di vedersi con malinconica assiduità soprattutto a Los Angeles, dove a partire dal .1940 si era-radunata una colonia di tedeschi eminenti: c'erano. Thomas e Heinrich Mann, Eisler, Feutchwanger, Peter Lorre, i «francofortesi»... Cercavano di sopravvivere lavorando per la vicina Hollywood, ricavandone umiliazioni cocenti; erano guardati con diffidenza pervia delle inclinazioni marxiste di alcuni; bevevano parecchio, parlavano detta guerra, litigavano spesso. In una sola cosa erano d'accordo: nel deplorare gli accessi religiosi di Dòblin, folgorato dall'illuminazione divina durante una détte giornate più tragiche della ritirata francese del 1940. Sì, l'ebreo Dòblin, l'illustre internista e neurologo, il militante della sinistra, l'artista d'avanguardia, l'amico di Freud si era fatto.battezzare nel 1941 con la famiglia, aveva slanci mistici, e durante una festicciola per il suo sessantacinquesimo compleanno aveva gelato l'ambiente spiegando che lui, al pari di molti altri scrittori, si era reso complice dell'ascesa dei nazisti «perché non cercava Dio». Il perfido Brecht spiegava la conversione annotando che «in effetti i colpi che hanno abbattuto Dòblin sono stati particolarmente duri: la perdita di due figli in Francia, l'impossibilità di stampare un poema di 2400 pagine, l'angina pectoris (così brava a convertire) e la vita accanto a una moglie straordinariamente stupida e gretta». Le irrequietezze e le con¬ traddizioni nanna sempre' agitato ViUnerario creativo del medico berlinese, che in gioventù aveva frequentato i testi di Marine tti e collaborato alla fondazione di una rivista di punta, «Der Sturai». Si portava addosso le deformazioni dell'espressionismo e le preoccupazioni documentarie del naturalismo e del realismo, il gusto per l'affresco sociale e i fantasmi dell'inconscio, le tensioni di un socialismo utopico e le proiezioni metafisiche, la capacità di rapide stilizzazioni e improvvise concessioni att'«andante» feuilletonesco. Scrittore fluviale, Dòblin ha prodotto molto, ma senza più toccare né l'originalità fantasiosa degli esordi, né lat febbre visionaria che in Ber-.' lìn Alexanderplatz gli faceva rappresentare l'anima selvaggia e distruttrice détta megalopoli moderna, organismo mostruoso e affascinante. Tentato da troppi registri e troppi messaggi, Dòblin faticava a stringerli in una cifra persuasiva, si faceva prender la mano dotta presunzione di capire tutto e di dire tutto: dove il tutto coincideva spesso col superfluo. E' quel che gli accadde in Senza quartiere, scritto durante l'esilio parigino del 1934, e dunque cronologicamente vicino a Berlin Alexanderplatz, di cui riprende alcuni temi, come a sfruttarne la vasta risonanza. Mondadori, che lo aveva tradotto nel 1937, lo ripropone adesso nella onesta versione di Alessandra Scalerò. Senza quartiere è molte cose insieme: la storia (auto¬ biografica) di una famiglia' contadina che, perso il padre scialacquatore e conosciuta la miseria, tenta la fortuna a Berlino; il diagramma esemplare detta scalata sociale del primogenito Rari, conclusa in tragedia; l'analisi tutta implicita del rapporto edipico tra Karl e la madre; la radiografia di un matrimonio borghese pietrificato dalle abitudini; l'epopea di una città che precipita in una guerra civile e di li in un regime autoritario. Ma tutto questo rappresentato senza la cattiveria di Grosz o il pathos palpabile di un Mundi, tra opacità e lentezze, tra la fiaba e la tranche de vie, con degli «a parte» sconfortanti f«E con ciò Karl si vendette all'amore, la potenza più tremenda e spietata»; e con dei «cappelli» di divulgazione socio-economica in cui la crisi di Weimar viene spiegata in soldani. Ha ragione Chiusano, autore di una densa (e indulgente) nota introduttiva, nell'additare nei capitoli iniziali (l'impatto della fami- glia con la città-Moloch) e in quelli finali (in cui Karl perfeziona la sua fame di destino) le parti più riuscite e vibrate; ma in troppe altre pagine il dramma collettivo resta più enunciato che rappresentato, e quello privato, procede storicamente, su binari prevedibili. Arriveranno altri Dòblin, sulla scia di Senza quartiere? Trai molti aforismi del romanzo ce n'è uno dedicato agli eccessi dei revival: «Quando i morti sì ridestano, accadono tragedie, ma qualche volta anche soltanto delle farse». Ernesto Ferrerò I
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