Leopardi ospite fastidioso di Giulio Cattaneo

Leopardi ospite fastidioso scrittore Nelle memorie del Ranieri una immagine quotidiana (e deformante; Leopardi ospite fastidioso Antonio Ranieri SETTE ANNI DI SODALIZIO CON GIACOMO LEOPARDI Introduzione di Giulio Cattaneo nota di Alberto Arbasino Garzanti, Milano 158 pagine, 4800 lire TROPPO fa -le è rimproverare ad Antonio Ranieri di non essere stato un grande biografo come Eckermann o Boswell, o di non avere avuto il gelo e il genio memorialistìco di un Saint-Simon. Il tono giusto nei confronti di questo Sette armi di sodalizio con Giacomo Leopardi è quello del suo ottimo prefatore odierno, Giulio Cattaneo, il quale, non nascondendosi certo le riserve che, da sempre, i maggiori leopardisti hanno avuto nei confronti della sua opera di filologo e di curatore abbastanza pasticcione delle prime edizioni postume del poeta dei Canti, nonché di censore puritano e forse «prò domo sua» di certi aspetti poco sondabili della vita del poeta, può nondimeno presentare un bilancio moderatamente e, se vogliamo, anche un po' ironicamente, positivo. Che questo volumetto di memorie pubblicato solo nel tardo 1880, molti decenni dopo la sua probabile stesura, così come la «Notizia intorno alla vita ed agli scritti di Giacomo Leopardi» scritta per l'edizione leopardiana del 1845 e il relativo «Supplemento» del 1847, riuniti qui a completare l'immagine del sodalizio, non ci dia se non saltuariamente il vero senso del genio e dell'enigma leopardiano, ciò non toglie che qualcosa — e qualcosa di non esclusivamente secondario — del dramma assoluto del poeta, aleggi anche in queste carte. Del resto, la mediocrità dell'ingegno non va sempre disgiunta dall'abnegazione che, senza alcun dubbio, vi fu da parte del Ranieri, in un secondo tempo aiutato dalla sorella Paolina, la cui pietistica volontà infermieresca e la cui dedizione a Leopardi e, con essa, alla probabile insopportabilità quotidiana del suo genio, non paiono immuni da un bisogno di mediocre autoesaltazione, di risarcimento della fatica indubbiamente patita, di rettifica di fronte a un'opinione pubblica doppiamente contraria. Tale fu quella del mondo delle lettere che, presto, avrebbe giudicato Ranieri per quello che era, e cioè un letterato mediocre e un po' arruffone; e quella dei benpensanti, che mostrarono di criticare il sodalizio fra i due (e poi fra i tre, quando ci si aggiunse la «spedalinga» sorella) come qualcosa di pressoché sconveniente. Allora non soprenderà che, fin dal primo stabile incontro fiorentino codificato nel 1830, con l'inizio della «vita nova» del Ranieri al servizio del poeta, che si sarebbe protratta fino al 14 giugno 1837 giorno della sua morte, più che i sublimi detti e i sovrumani e forse ironici silenzi, egli ne avrebbe registrato gli «sputi di sangue» o la «fiera vomica», la «deforme curvatura», la «tisi» o il «benefizio quotidiano del ventre», con la relativa convocazione dei massimi luminari medici del tempo, e l'angosciosa ricerca di climi migliori di anno in anno, tra Firenze, Roma e Napoli, con la relativa organizzazione di viaggi in carrozza sopportabili per il grande infermo, di appartamenti per lui confortevoli, di servitù e assistenza. Frammezzo alle notizie pur date sulla composizione degli ultimi undici e più sublimi fra i Canti, dei Paralipomeni della Batracomiomachia e di quelli che Ranieri avrebbe pubblicato come Pensieri, ecco registrarsi un'immagine del disperato invocatore della morte, come di un moribondo attaccatissimo, viceversa, alla vita e alle innumerevoli contraddizioni del suo quotidiano. Egli sarà così oggetto di un'esaltazione smodata e anche generica da parte del suo biografo; ma anche di commenti meno benevoli sul suo seguire in modo ora maniacale e ora non seguire affatto il consiglio dei medici, di amante ora del chiuso e del buio e ora della luce accecante; portato a fare di notte giorno costrìngendovi amici e infermieri, e a fare vita sregolata per l'ammalato che era, incontrando persone (non meglio indicate) sconsigliategli dal Ranieri e dagli altri amici Né si tacerà della sua vanitosissima sete di lodi e della sua fiera antipatia per chi non gliene facesse a sufficienza; né, tantomeno, del suo odio per chi facesse pettegolezzi sul suo conto. Né ancora si tacerà la sua sfrenata golosità per «caffé, sciroppo di caffé; la limonea, sciroppo di limone; il cioccolatte, sciroppo di cioccolatte»: per non dire di certi pani genovesi, dei «tarallini», dei «confetti di zucchero» e, infine, dei gelati che, anche negli ultimissimi mesi, quando era già gonfio di idropisia nella villa vesuviana «delle ginestre» e il mangiarli poteva essergli letale, egli mandava a prendere a Napoli dal miglior gelataio. Si ha insomma l'impressione che una lettura appena meno epidermica può darci a vedere quanto di tirannicamente narcisistico, di divorante e autodivorante può accompagnarsi alla dimestichezza quotidiana col genio e col sublime, e con chi, come Ranieri e la sorella Paolina così portata al suo «olocausto*, lo hanno quotidiana¬ mente assistito. Più che al goethiano Eckermann bisogna, insomma, fare forse riferimento al kafkiano Max Brod. D'altro canto, una lettura non soltanto documentaria di questo libro apre a momenti rocchio su qualche pianoro, dove è già una più autentica aria leopardiana. Come nello scorcio di Monaldo intravisto a Recanati mentre va «a dir mattutino» in una chiesetta, e il Ranieri lo congratula, sicuramente infastidendolo, perché padre di «tanto uomo»; o nell'immagine della primavera nei giardini fiorentini che «diventavano allora un incantesimo»; o in quella di Leopardi al Teatro Mercati ante di Napoli, dove godendosi il Socrate Immaginario di Pai- siello, si fa «il solecchio pe' lumi che lo ferivano»; o l'altra, infine, di Leopardi già avanzatissimo nel marasma di cui sarebbe morto, e che, nei dintorni della villa vesuviana che lo ospita, si compiaceva «di udire il canto di una giovinetta, fidanzata ad un figliuolo del fattore, e che aveva ancor essa il nome Silvia». Marco Forti

Luoghi citati: Firenze, Milano, Napoli, Roma