L'italiano non è più un dialetto europeo di Renato Minore

L'italiano non è più un dialetto europeo Pochi mezzi, molte richieste di imparare la nostra lingua L'italiano non è più un dialetto europeo ROMA — II pessimismo degli anni passati sembra bandito, da più parti pervengono segnali positivi. Difficile sintetizzarli: negli Stati Uniti, a ogni livello, la lingua italiana viene studiata più di quanto comunemente si creda; considerata «d'importanza nazionale», è preceduta dal tedesco, dal francese e dallo spagnolo, ma viene prima del russo. In Romania tredicimila bambini di trecentotrentasei classi elementari hanno l'italiano come materia obbligatoria. Lo stesso avviene nei conservatori e negli istituti d'arte sovietici. E continue richieste di nuovi insegnamenti o di nuovi insegnanti di italiano arrivano da paesi con cui sono stati avviati rapporti di scambio economico e tecnologico, come lo Zambia, il Senegal, lo Yemen meridionale... La domanda che investe la nostra lingua e, complessivamente, la nostra cultura è in continua espansione. Appena un anno fa, è divampata la polemica sull'italiano considerato un «semplice dialetto europeo» : con quel tanto di paradossale che talora mette nelle sue proposte, Alberoni ha sostenuto che la nostra lingua non è più «un veicolo di comunicar zione universale», quindi va ovunque sostituita con l'inglese «attraverso una opzione linguistica a livello di massa». Si è discusso molto sulla proposta, c'era chi non era d'accordo. L'importante, ha risposto ad Alberoni il linguista Tullio De Mauro, non è disporre di una lingua egemone, quanto poter contare su uno strumento di comunicazione valido ed efficace all'interno della comunità nazionale. C'è, poi, un quesito fondamentale: perché una lingua che all'apparenza sta perdendo peso non comunica più, suscita un crescente interesse fuori d'Italia? Alla domanda ha cercato di rispondere una ricerca, sullo studio dell'italiano nel , mondo, promossa- dal minisiero degli Esteri. Per stabilire quale è la richiesta di conoscenza della nostra lingua, è stato inviato un questionario a tutte le rappresentanze diplomatiche. I dati, ora noti, sono stati presentati a Roma in una conferenza stampa tenuta da Sergio Romano, direttore generale per la cooperazione culturale, scientifica e tecnica della Farnesina. Vediamoli in breve. R settore tradizionale di diffusione dell'italiano è certamente quello universitario: cinquantacinque paesi, un migliaio di cattedre e circa settantamila studenti. Segue la scuola di secondo gra¬ do. Si insegna l'italiano in trentasei paesi e 2365'scuole, con oltre centotrentamila allievi La nostra lingua è presente anche nelle primarie: circa trentacinquemila allievi, di cui quattrodicimila in Francia e oltre seimila negli Stati Uniti. I dati sono parziali perché mancano quelli relativi all'Argentina, al Canada, alla Svizzera, all'Australia. In ogni caso, allo stato attuale delle conoscenze, si può dire che il numero di stranieri che sistematicamente studiano la nostra lingua tocca il mezzo milione. Ma assai significative sono anche le indicazioni provenienti dal campo dell'istruzione parascolastica, che registra forme sempre più diffuse di «educazione ricorrente». Nella sola Germania occidentale, circa 48 mila persone seguono corsi d'Italiano come attività culturali di tempo libero. I motivi di questo sviluppo sono di diverso tipo. Ci sono, innanzitutto, i cinque milioni di emigrati che non intendono rinunziare alla propria lingua e chiedono di essere aiutati a conservarne e a migliorarne la conoscenza (il fenomeno, per gli Stati Uniti, è stato di recente documentato da un'esauriente inchiesta di Umberto Eco). C'è, poi, il fatto che in tre paesi transoceanici (Stati Uniti, Canada e Australia) Vitaliano fa parte della «cultura multietnica», quindi utilizza i canali disposti dalla legge per la sua migliore diffusione. C'è, infine, la sco¬ perta della nostra lingua (soprattutto universitaria: si pensi alla Francia) dettata dall'interesse con cui l'opinione pubblica di tutto il mondo segue le vicende politiche e sociali dell'Italia, «paese-laboratorio». Insomma, l'indagine conoscitiva del ministero degli Esteri fotografa una situazione «in progress». Ma a questa richiesta, è necessario dare una risposta organica di politica culturale. Si deve colmare al più presto un ritardo assai grave nella diffusione dell'italiano all'estero, altrimenti la domanda sarà delusa e davvero la nostra lingua diverrà un dialetto sempre meno parlato, Le richieste d'intervento che provengono da ogni parte sono di diverso tipo. Basta sfogliare la ricerca ministeriale che, sotto questo profilo, è un autentico Cahier des doléances: ovunque c'è scarso aggiornamento, carenza di materiale didattico e audiovisivo, insufficienza del corpo docente. Per fronteggiare la situazione l'alleato è l'insegnante straniero di lingua italiana, il nostro migliore ambasciatore all'estero. Occorre conoscere i suoi problemi, aggiornare le sue conoscenze, aiutarlo a risolvere le sue difficoltà politiche e burocratiche. Ora, qualcosa si muove. Nella didattica della lingua: si è appena aperto a Toronto un grande convegno sulla diffusione e sull'insegnamento dell'Italiano in Canada. Nei prossimi mesi partirà una inchiesta promossa dall'Istituto per l'Enciclopedia Italiana per conoscere le motivazioni di chi si accosta alla nostra lingua nei Paesi stranieri. Su queste motivazioni, sappiamo molto poco da un punto di vista «scientifico»; ed è quasi inutile sottolineare che anche qui siamo in ritardo rispetto a molti altri Paesi. Renato Minore

Persone citate: Alberoni, Sergio Romano, Tullio De Mauro, Umberto Eco