Zangwill: risate dal ghetto

Zangwill: risate dal ghetto o del narratore ebraico Zangwill: risate dal ghetto parte, addetti a lavori di sartoria — più che taglio d'abiti nuovi, sistemiamone dell'usato — e così introdussero per primi in Europa su larga scala l'impiego della macchina da cucire; anche l'industria delle sigarette, sino allora monopolio americano. Si crearono, come in America, un sindacato, una stampa di quartiere, un teatro popolare yiddish. Israel Zangwill cominciò a farsi notare nelle pagine di quei giornaletti con racconti umoristici, di uno speciale jewish humour che ancora si distingue nella letteratura e nel cinema, ed è soprattutto, diventato ameryiddish. Ma ciò che esistenzialmente impegnava 1 lo spirito di Zangwill era una continuata e mai risolta riflessione sui rapporti fra Legge e storia, tradizione e modernità, ebraismo e diaspora, ghetto e mondo esteriore. La scélta stessa della lingua— l'inglese — come strumento di comunicazione (anche col mondo esterno) piuttosto che il gergo ebraico, riflette questa sua collocazione; là dove la scelta dello yiddish o addirittura dell Ivrìt, il neo-ebraico, indica nella narrativa di Shalom Aléichem o nella epica di Nachman Biàlik una. volontà ben precisa di autonomia culturale e di sfida contro il mondo ostile. Zangwill è per antonomasia l'uomo e il poeta di due mondi e di un'età di transizione, colui che rincorre il sogno irrealizzabile della • confluenza tra le fedi. In un suo saggio pub- : bucato sulla Jewish Quarterly Review nel 1889, Zangwill afferma il valore imperituro dell'ebraismo come religione rivelata, ma allo stesso tempo ne denuncia la cristallizza- i zione. righetto, nella sua grandezza e miseria, tragedia e allegria, poesia e umiliazione, è un retaggio luminoso dell'ebraismo, ma il suo tempo è finito. In questo articolo è già contenuta, in nuce, tutta l'opera narrativa e drammatica di Zangwill dedicata ai temi dell'ebraismo. «Aggiornare il Dio dei padri è il sogno di tutti i sognatori del ghetto zangwill iano — scrive Eugenio Levi nella magistrale prefazione a lì meglio di I.Z edita da Longanesi nel 1955, che Feltrinelli giusta-1 mente ripropone davanti alle pagine del Re degli schnorrer—E libro potrebbe intitolarsi la dialettica di Dio. E ognuno dei suoi protagonisti muove alla conquista di un Dio che risponda alle proprie inclinazioni. Sarà, per esempio, un Dio razionalistico per u nel Acosta, o un dio conciliatore per Giuseppe il sognatore, o un Dio redentóre del popolo per Lasalle, o un Dio lontano e velato per Spinoza, o un Dio magnificamente colorato, un Dio umorista (l'Aristofane del cielo) per Heine; e per tutti un Dio unico: l'Uno, guidato fra gli spasimi del supplizio da Rabbi Akiba». Con la pubblicazione, largamente diffusa in tutto il mondo di lingua inglese, dei Figli del ghetto (1892), eppoi delle Tragedie del ghetto (1893), e di quel delizioso «diverlissemenUche è n re degli Schnorrer (1894), cui si aggiunse l'anno successivo il romanzo non ebraico The Master, Zangwill diventò un uomo celebre, dentro e fuori dalla comunità déll'East End. Fu allora che gli si presentò davanti un uomo dalla grande barba che pareva un rabbino, e gli disse: «Signor Zangwill, voi sapete cosa è accaduto in Ucraina, e in Germania, cosa accade in Francia, la pur civilissima Francia, col processo a Dreyfus; voi dovete aiutarmi a creare lo Stato ebraico» . L'uomo era Theodor Herzl, e Zangwill ne fu immediatamente conquistato.. Fu il primo uomo di lettere veramente conosciuto (voglio dire: conosciuto anche fuori dagli ambienti ebraici) ad appoggiare nel suo programma sionistico quell'altro uomo di lettere e giornalismo trasformatosi in politico e profeta. E lo appoggiò non soltanto a parole. Pubblicò, successivamente, I sognatori del Ghetto (1898), un romanzo sulla guerra dei Boeri (IL mantello di Elia, 1900), Le commedie del Ghetto (1907) col deliziosissimo racconto sul Sabato a Subminster; poi, tre drammi per il teatro fra cui—dedicato all'America —n crogiuolo (1909), e ancora Capriccio Italiano (1910), e un romanzo sull'Inghilterra contadina nell'età di Gladstone (Jinnie the Carrier, 1919) e altri ancora. Si aggiungano i discorsi, i saggi, gli articoli politico-ideologici in favore del Sionismo e poi di quella corrènte scissionistica che cercò — Zangwill in testa — una soluzione, umanitaria al problema profughi di realizzazione immediata, fuori dalla Palestina. Mise insieme anche una traduzione, inversi e rime inglesi, del rituale sinagogale. In questo svariato e abbondante corpus di opere, perché scegliere proprio H re degli ; Schnorrer? L'Universale Economica Feltrinelli lo ripresenta nella vivace e bella traduzione di Marta Navarra (1955) che è la terza in ordine cronologico dopo quella di Gian Dàuli del 1923 (La Modernissima) e di Saroli del 1931 (Bietti). Non si poteva scegliere meglio: oltre tutto, e anche dopo ire diverse edizioni di diversi editori, l'opera è rimasta praticamente sconosciuta al grande pubblico. Abbiamo accennato prima a questo racconto come a un divertissement: in effetti, è una diversione dal cammino principale, una gaia passeggiata in stato di grazia. La strada maestra del pensiero «ebraico» di Zangwill passa attraverso il ciclo dei figli, nipoti, sognatori, tragedie è commedie del Ghetto, e i suoi racconti emblematici sono II fanciullo del ghetto e Had-gadyà, sono Giuseppe il sognatore e Quelli che camminano nelle tenebre, racconti drammatici o melodrammatici, che uniscono la riflessione alla rappresentazione, l'allegoria alla storia e al colore. E tuttavia B. re degli Schraorrer li vince tutti come opera d'arte: senza alcun dubbio è il capolavoro di Zangwill, a cui nvila manca e—caso raro per Zangwill — in cui nùUa è di troppo. Un classico dell'umorismo d'ogni tempo, che più invecchia più ringiovanisce, là dove quelle altre storie di Zangwill, di tutto rispetto e di alto valore, però le avvertiamo datate esovrabbondanti: talvolta, la sintesi che ne dà Eugenio Levi vince la stesura originale. Manasse Bueno BarzUai Azevedo da Costa: sotto questo pomosissimo e nobile nome si muove U prìncipe degli accattoni, il gran signore del far niente, il maestro della dialettica talmudica, capace di piegare il più tirchio dei suoi ricchi correligionari a regalargli un intero corredo di vestiti nuovi, e liniera comunità a raccogliere e versargli la dote per la figliola che deve andare sposa. Manasse è una sorta di Don Chisciotte vini cente, evincente è anche il suo Sancho, che qui si chiama Yànkele ed è un piccolo ebreo senza blasone perché «ashkenazi» (di origine mittel-europea) e non «sefardi» cioè di altolocato lignaggio iberico. In quale modo l'irresistibile coppia riesca a sgominare l'intero Consiglio della Comunità, a travolgere il pomposo banchiere Grobstock e a spremere l'avarissimo predicatore soprannominato «Rimorso Aringa Rossa», questa è la materia del racconto, ambientato ai tempi di Guglielmo Pitt, ma che in realtà, come tutti i capolavori, non ha tempo, no* ha luogo proprio nel momento in cui è invece assolutamente e tipicamente di un certo tempo, di una certa gente.diuncertoluogo. GuidoLópez