L'anima del patois, tra folclore e rabbia

L'anima del patois, tra folclore e rabbia Inchiesta sulle letterature regionali: la Valle d'Aosta L'anima del patois, tra folclore e rabbia I quadretti naifs di Cerlógne e le malinconie della poetessa Eugenia Martinet. Oggi il dialetto franco-provenzale è diventato uno strumento della battaglia autonomistica e della difesa etnica. Il suo revival passa attraverso un teatro popolare scritto e interpretato da dilettanti: le farse dello «Gharaban» e le nuove forme dove il riso esprime la protesta di personaggi della civiltà contadina emarginati e calpestati Con il servizio di Daniele Gorret sulla Vaile d'Aosta riprende ia nostra inchiesta sulle letterature regionali, giunta alla diciottesima e penultima puntata. I servizi precedenti sono stati dedicati a Trieste e ia Venezia Gk'ua (Magrisì. Emilia e Romagna (Marabinì). Sicilia (Pasqua'ìno). Lombardia (CucohO Basilicata (Trufelli). Sardegna (Mundula), Veneto e Trentino (Frasson), Roma (Rossetti), Napoli (Orsini). Abruzzo (Minore), Piemonte (Calcagno), Liguria (Astengo), Puglia (Motta), Marche (Luzi), Calabria (La Cava), Molise (Pietravalle), Friuli (Morandini). AOSTA — Se c'è ima regione nel nostro Paese che può vantare una sua propria stòria letteraria (non solo per la continuità di una. produzione attraverso i secoli, ma nel senso forte di aver dato vita ad una letteratura con caratteri peculiari e diversi rispetto a quella nazionale) questa, regione è proprio la Valle d'Aosta. Peculiarità e diversità che si misurano in primo luogo nel fatto che questa produzione è stata pressoché interamente (almeno fino agli inizi del nostro secolo) in lingua francese e poi (e direi soprattutto) nella consapevolezza da parte degli scrittori e degli intellettuali valdostani di Vivere sempre, anche in periodi storici molto diversi, una realtà culturale particolarissi-' ma. Per cui il «filo rosso» che attraversa questa letteratura regionale non è tanto quello di una fedeltà astratta alla lingua francese quanto della difesa di una personalità culturale (e. inestricabilmente, sociale ed etnica) costante-' mente insidiata. Tutto questo a partire almeno dalla metà del XVTJ secolo, quando il vescovo di Aosta Albert Bailly stese, nel 1661. un breve scritto in latino a commento dell'adesione al gallicanesimo da parte del clero valdostano; nel testo si affermava senza mezzi tèrmini che «ducatum istum» (la Valle d'Aosta, appunto) «non esse citra neque ultra montes sed intra montes». Era la prima dichiarazione esplicita del particolarismo valdostano che doveva essere poi approfondita nel secolo successivo dall'opera di J. B. De Tillier, il più insigne certo degli storici valdostani. Ma non si pensi per questo ad una letteratura caratterizzata da un arroccamento feroce nei ristretti limiti della realtà . regionale che, anzi, proprio per la sua posizione al centro (quasi al crocevia) di realtà culturali diverse, la .Valle è stata ed è necessariamente sensibile agli studiosi provenienti dall'esterno. E se l'impressione di una chiusura localistica rimane, relativamente a certi periodi o a certe figure della.sua storia, è pur sempre una chiusura comprensibile alla luce degli attentati portati da forze soverchiami alla sua identità profonda, all'equilibrio delicato fra tradizione e rinnovamento della tradizione. 11 francese è stato, soprattutto in epoca post-unitaria, lo strumento ed il segno di questa difesa ad oltranza di un patrimonio culturale-, e non a caso il fascismo, intenzionato a distruggere dalle fondamenta ogni diversità all'interno dei «patri confini», individuò proprio nel francese orale e scrìtto il nemico da battere in Valle d'Aosta. Di qui la serie di decreti governativi per l'italianizzazione della Regione culminati nella soppressione dei giornali in francese e nel divieto di usare questa lingua nella stampa. Ma di qui anche una reazione dell'ambiente intellettuale che si espresse dapprima in una associazione semiclandestina, la «Jeune Vallee d'Aoste» e poi negli anni della lotta armata di Liberazione, per il ripristino della libertà d'espressione in Valle. Frutto di quelle lotte fu la concessione nel '48 da parte dello Stato italiano dello Statuto speciale e dèi riconoscimento di un bilinguismo ufficiale italiano-francese in tutto il territorio della Regione. " Oggi però, a più di tren-. t'annt da quella data, non si può dire che il francese abbia riconquistato neanche come lingua scritta là posizione privilegiata tenuta in passato: più ancora1 dei provvedimenti violentemente antifrancesi del ventennio, hanno pesato rimmigrazione massiccia dal resto della penisola e l'imposizione dell'italiano come lingua dei mass-media in questo secondo dopoguerra. ★ ★ Anche per queste ragioni, parlare di una letteratura regionale oggi in Valle, fa pensare più che alla produzione in francese a quella in francoprovenzale, il dialetto (ma per molti, ormai, la lingua) della Valle d'Aosta. A differenza del francese perseguitato e. in certa misura, vinto dalle vicende di questi ultimi cinquantanni di vita regionale e nazionale, il franco-provenzale (il «patois» per i valdostani) ha mantenu¬ to una sua innegabile, anche se contrastata, vitalità. Ferito solo di striscio dalla politica italianizzatrice del regime, il «patois» ha poi dovuto sopportare gli attacchi ben altrimenti violenti (e subdoli) della nuova cultura livellatrice del «boom» economico (e sappiamo, con questo, di non dire nulla di nuovo, ma soltanto di applicare alla realtà valdostana le «lezioni» di Pasolini). E' con questo dialetto «difficile», inquinato di termini italiani, parlato solo da una fascia ristretta della popolazione autoctona, che si misura oggi una nuova letteratura regionale. Dialetto antico, ma giovane come lingua scritta, il francoprovenzale ha alle spalle poco più di cent'anni di tradizione letteraria, soprattutto poetica. Cominciò verso la metà deisecolo scorso un umile cuoco, fattosi poi sacerdote per le pressioni dei suoi amici, J. B. Cerlognc (1826-1910) che, in anni consoni alla riscoperta di lingue non nazionali (è del 1854 la fondazione del movimento felibrista ad opera, tra gli altri, di Mistral), dipinse con grazia da naif quadretti di vita valdostana, tradusse in . «patois» episodi dell'Antico e Nuovo Testamento, si misurò nella poesia d'occasione. Nella semplicità di quelle rime («c'è in loro qualcosa di troppo semplice, di troppo primitivo, di troppo patriarcale per la nostra epoca» sembra affermasse Fautore restio alla pubblicazione) è già chiaro tutto un modo di far poesia in _ «patois». quello per cui al dialetto sono riservati i temi del quotidiano, del grazioso (ai limite del folkloristico) e le forme più vicine al linguaggio parlato o. sull'altro versante, alla filastrocca. Sulla via aperta da Cerlo- - gne si mossero, tra fine secolo e inizi del '900. altri poeti. M. Thomasset, J. M. Henry. D. Lucat. quest'ultimo in particolare con esiti notevoli. Ma dimostrare «quanto possa la lingua nostra» è toccato ad una poetessa. Eugenia Martinet (nata nel '96) che nel dialetto ha riversato una carica di malinconia privata e mitica insieme, su una tonali-, tà bassa, quasi di lamento per il tempo che passa e i piccoli, poveri esseri che porta con sé. «Die garda cuna, tan bouna souvegnance I di ten que nòsaiàn le bette i meda. I L'ere e un tzeun que vegnave de la France I -tot gami di flocon Han di maouton I avoue eun non queurt. eun non vito cria I e eun lon regar deun la couéfe di bouégno...» (Conservo un così buon ricordo / 'del tempo in cui avevamo l'è bestie in casa. / Era un cade che veniva dàlia Francia. / tutto guarnito di fiocchi bianchi di montoni, / con un nome corto, un nome presto gridato / e un lungo sguardo nella cuffia delle orecchie...»). «Nella Martinet — scriveva Pasolini in Poesia dialettale del '900 — le "cose" sono sempre ben definite: "materiali", quasi a contrastare con lo spazio favolistico da saga alla Grirnm. che le ricetta pieno di quell'atmosfera brumosa e limpida — poeticamente sempre serale — che è del romanticismo più fine». Soprattutto la Martinet. che si muove in una direzione opposta a quella di Cerlogne (non verso il bozzetto, ma verso l'evocazione magico-lirica). ha saputo servirsi del dialetto in maniera adulta e «moderna», lasciandosi alle spalle ogni facile concessione al colore locale. ★ ★ Molto più che attraverso la poesia, però, il revival del franco-provenzale sta passando, in questi anni, attraverso la creazione di un teatro po-. polare scritto ed interpretato da gruppi di dilettanti. Di un teatro che, proprio perché popolare, è riuscito a riproporre in maniera a tratti vistosa il «patois» come lingua in cui ricominciare a parlare e da iniziare à scrivere (o da «inventare», da provare a scrivere). Perché il problema di uno scrittore in franco-provenzale è proprio quello della grafia, senza contare l'altro, della scelta del dialetto che varia, in modo anche molto sensibile, da paese a paese. Nel «patois» di Aosta sono state scritte les «pièces» dello «Charaban». il primo e più grosso gruppo teatrale, nato nel 1958 ad opera di René Willien e Pierre Vietti, nell'ambito del neofelibrismo piemontese di questo dopo- guerra. Lo «Charaban» (dal nome di un carro usato un tempo per il trasporto di persone a feste o carnevalate e come palco per gli attori dilettanti) nato con lo scopo esplicito di impedire in: qualche modo che «la lingua dei nostri antenati sia inesorabilmente sommersa da altre lingue che non si sono formate, nella nostra regione e che possono nuocere alla nostra etnia» ha conosciuto di anno in anno un successo crescente. Portando sulla scena episodi di vita' contadina o di storia popolare nella forma immediata e facile della farsa, lo «Charaban» ha raggiunto un pubblico molto vasto, contribuendo certo a suscitare nuovo interesse attorno al fenomeno del franco- provenzale. Ma proprio per " genere in cui si è identificalo (con i personaggi necessariamente ridotti, a macchiette o quasi), il teatro dello «Charaban» ha teso al vernacolo ed al folkloristico ed anche per questo si è visto contestato, negli ultimi anni, da gruppi teatrali più giovani sorti un po' dovunque in Valle, figli in certa misura del suo stesso successo. Nelle farse del nuovo teatro dialettale, il riso si è fatto più amaro, i personaggi sono contadini emarginati o sconfitti, i problemi sono quelli quotidiani vissuti in una società che calpesta i diritti della terra in nome del progresso; e il «patois» diventa il segno di una diversità e di una rabbia per quanto della civiltà e della cultura contadine va inesorabilmente perdendosi. Il clima in cui questo teatro nasce è quello di una rinnovata ricerca culturale e di rinnovate polemiche anche tra i gruppi politici locali sul ruolo del franco-provenzale nella battaglia autonomistica e per la difesa del gruppo etnico valdostano. Le trasmissioni radiofoniche, le canzoni più o meno impegnate, lo spazio. dedicato sulle riviste locali, e. ultimamente, il tentativo di insegnare a parlare e scrivete il franco-provenzale, fuori e déntro la scuola, ne sono i risultati più evidenti. In questa situazione, il rischio è che il «patois» scritto si carichi di contenuti sempre più «ideologici», si leghi ob- bligatoriamente solo a certi temi, in una parola che se ne faccia un uso sempre più strumentale. La speranza, invece, è che si ritrovi alla radice stessa di questo strumento espressivo, quel gusto di una lingua antica, legata alla terra, concreta ed «umana» è perciò stesso, almeno in potenza, tutta poetica. Daniele Gorret