Perché combatteste tutte queste guerre?

Perché combatteste tutte queste guerre? Militari e polìtici italiani giudicati da un inglese Perché combatteste tutte queste guerre? John Whittam STORIA DELL'ESERCITO ITALIANO Milano, Rizzoli, 1979 398 pagine, 12.000 lire TL titolo dato alla edizione italiana di quest'opera J** non deve trarre in inganno: non si tratta infatti di una storia dell'esercito italiano, bensì di una storia delle relazioni fra i militari e la politica nell'Italia postunitaria. Scrivere infatti le vicende del nostro esercito è tutt'altra cosa, rende necessaria una scelta metodologica nuova e richiede una attenzione alle condizioni sociali e culturali dei soldati: per tutto questo mancano molti lavori preparatori, ai quali l'autore di questo libro non pretende di sostituirsi. n suo obiettivo è piuttosto quello di integrare, in una sintesi generale, il mondo della politica con quello dei militari, soprattutto al fine di rispondere ad un interrogativo di fondo : per quali ragioni e in che modo un Paese cosi poco militare quale l'Italia è stato portato cosi spesso in guerre assai poco sentite e molto sfortunate. La risposta data nel libro è parzialmente soddisfacente per il periodo fra l'Unità e la guerra di Libia, deludente per gli anni seguenti, dalla Grande Guerra al fascismo. Con un metodo abbastanza consueto fra gli studiosi inglesi che si occupano della nostra storia l'autore rilegge con ima certa disinvoltura gli awenimenti poh' tici e militari del Risorgimento, per soffermarsi poi giustamente sulle operazioni della vera e propria guerra contro il brigantaggio nell'Italia meridionale, banco di prova e non solo tecnico del nuovo esercito unitario e della sua dirigenza. Ne emerge un primo giudizio interessante, racchiuso nella affermazione che la repressione del brigantaggio non fu l'occasione di un pronunciamento militare e nemmeno di pesanti ipoteche del potere multare su quello civile. La ragione sarebbe da ricercarsi nella appartenenza degli alti ufficiali dell'esercito alla stessa élite di governo, per cui essi potevano operare all'interno del sistema; pur con le sue conseguenze conservatrici,, questa situazione avrebbe' però consentito anche la sopravvivenza del sistema politico cavouriano. ■ La prova bellica del 1866 avrebbe scosso questo felice connubio fra il braccio militare e quello civile della dirigenza politica, portando la questione della organizzazione dell'esercito e della marina nel vivo del dibattito di opinione pubblica. Ma le riforme del Ricotti Magnani e il periodo di sviluppo dell'esercito fra 1873 e 1887 non alterarono le basi del precedente connubio: pur con una documentazione non adeguata, l'autore può concludere che, a differenza di altri Paesi, in Italia i gruppi militari non costituirono allora uno Stato nello Stato, un centro di potere determinante e svincolato dal controllo politico. Pur accrescendosi la frattura fra gii ufficiali, inquadrabili nell'Italia legale per provenienza e per riferimento sociale, e la truppa, appartenente alla misconosciuta Italia reale, i militari non presero una strada radicalmente divergente dai politici. L'atteggiamento di Crispi verso la Triplice e nella vicenda che portò ad Adua è giudicato, in maniera piuttosto sbrigativa, come la massima punta del militarismo italiano hel secolo scorso: la visita dello statista siciliano a Bismarck è inoltre paragonata a quella di Mussolini a Hitler nel modo di presentare la situazione italiana. E su tutto il periodo di fine secolo rimangono un po' in ombra il peso reale del partito di corte e i suoi collegamenti con i vertici militari, mentre giustamente Whittam osserva invece che in occasione dei fatti di Milano del 1898 e delle spinte reazionarie connesse i capi militari non vollero sovvertire le istituzioni. Durante i governi di Giolitti, e pertanto nella fase della industrializzazione, gli stessi mutamenti degli equilibri fra i partiti inducono lo studioso a guardare più addentro all'esercito, lasciando da parte i capi: ci troviamo cosi di fronte' anche a qualche apertura verso una sociologia dell'esercito, che si arresta tuttavia a rapidi riferimenti a M. Janowitz e a D. C. Rapoport, mentre utili appaiono diverse pagine dedicate a scorci sulla mentalità degli ufficiali dei gradi intermedi. Su questa promettente strada il libro non compie però altri passi e quando si giunge ai nodi cruciali dell'intervento nel 1915 e della condotta di guerra offre soltanto alcuni cenni alle già tanto studiate relazioni fra comando supremo e governo. Pur con i suoi rischi un taglio sociologico, unito ad una sensibilità per la «cultura» delle classi popolari, avrebbe consentito forse di dare a questa sintesi elementi di novità proprio per il periodo novecentesco di entrata delle masse anche nelle strutture militari. E invece proprio nell'avvicinamento ai contorni sociali della truppa e degli ufficiali si incontrano asserzioni poco convincenti, come nel ricorrere all'idea espressa da Barbusse che i soldati combattevano «per i toro compagni d'arme» (p. 301) o nell'attribuire al momento dell'armistizio del 1918 la provenienza degli ufficiali di complemento, da capitano in giù, al «ceto medio e contadino» (p. 331)! Sul periodo fascista la scarna quarta parte del libro, benché preparata appositamente per l'edizione italiana, non porta alcun contributo di novità e neppure una organica esposizione. E qui occorre chiaramente dire che nell'attuale crisi della editoria storica reca un certo stupore l'ampiezza ed il rilievo dati alla traduzione di un'opera che sarebbe stata certamente migliore se ridotta di proporzioni e limitata ai primi decenni postunitari. Alberto Montico ne Un'azione dei bersaglieri contro i briganti meridionali

Persone citate: Alberto Montico, Barbusse, Crispi, Giolitti, Hitler, Mussolini, Rapoport, Ricotti Magnani, Rizzoli