E subito le strade del paese s'accendono di luce elettrica

E subito le strade del paese s'accendono di luce elettrica anteprima oleum pagine da Wo di No,, ai Salvatore Satta E subito le strade del paese s'accendono di luce elettrica LÀ luce elèttrica era venuta a Nuoro incredibilmente presto. Qualcuno che era tornato dal continente parlava di queste città che si iUumìnavano improvvisamente, di queste lampade che si accendevano da sole, e non una qui e una là, ma tutte insieme, come dire da San Pietro a Sèuna. in una volta. Ma In fondo non erano che parole. Maestro Ferdinando, che era maestro perché era muratore, ma si era assunto il compito di accendere ogni sera i fanali a petrolio, continuava il suo lavoro. Era un uomo lungo e magro, e vestiva il costume, per quanto fosse, a causa del suo mestiere, un poco inurbato. I fanali erano come urne di ferro, con un lungo braccio piantato negli spigoli delle case, e avevano una loro massiccia eleganza. Maestro Ferdinando, quando spuntava la prima stella, afferrava l'altissima scala che di giorno restava appoggiata per il lungo al muro rosso della sua casetta, e portandola spallarm iniziava il suo giro. I ragazzi gli correvano appresso, compresi di quella pubblica e solenne cerimonia, e non solo i figli scalzi dei poveri, ma i figli dei ricchi, con le loro scarpe ferrate di chiodi, per salvare la suola. Maestro Ferdinando, senza guardarsi intorno, issava la scala poggiandola sul braccio del fanale, apriva io sportellino di vetro, e strofinava il fiammifero di legno sul ferro, lasciandolo poi cadde per terra. Era quello che i ragazzi attendevano perché si gettavano vociando sulla inutile preda, di cui ciascuno faceva raccolta. Chi ne raccoglieva più di tutta, perché era il più svelto, era l'ultimo figlio di Don Sebastiano, che li portava a Donna Vincenza, perché glieli custodisse. Donna Vincenza custodiva i fiammiferi spenti del suo bambino nella grande credenza incastrata nel muro, di cui teneva le chiavi nel mazzetto attaccato alla cintola, accanto agli spiccioli che le lasciava Don Sebastiano. Elia sapeva, nella sua ignoranza, quel che Don Sebastiano, con tutti i suoi studi, non avrebbe capito: e cioè che dietro quelle cose morte c'era una vita immensa, uno sconfinato mondo d'amore, assai più che dietro i giocattoli, se mai in casa di Don Sebastiano si fosse potuto concepire un giocattolo. Cera l'idea di una terra, della terra per noi arida e ava- * à, picua ui uuiu uici Ckviguvr- .si: c'era la fantasia del gratuito, che ha mosso il creatore alla sua creazione: la gioia di sentirsi partecipe di questa creazione e di questo dono, n senso dell'utile e dell'inutile è estraneo a Dio e ai bambini: esso è l'elemento diabolico della vita, e può darsi che Don Sebastiano lo sentisse, con quel suo rispondere a chi gli diceva che era ricco, che ricco è il cimitero. Ma queste non era un conoscere la grazia, era anzi una specie di maledizione. La grazia era rimasta nell'animo di Donna Vincenza, perché Don Sebastiano, inteso all'utile e all'inutile, l'aveva confinata nei suoi ricordi di fanciulla, e forse anche per lei questi fiammiferi spenti cadevano simbolicamente dal cielo, e sia pure il cielo di un rugginoso lampione. Ma il fatto è che i lampioni a petrolio, e maestro Ferdinando e i fiammiferi e i sogni avevano le ore contate. Don Priamo e Donna Franceschina ffluminavano ancora la loro cena con la fiamma inquieta della stearica, e ancora le lucerne di rame riempivano d'ombra e di luce le stanze dei servi: ma Pasqualino sapeva quel che si faceva quando tramava col continente per spegnere con un potente soffio tutte quelle fiammelle preistoriche. Ricco di un'immensa ricchezza (possedeva salti interi, in tutti i paesi del dr- condario), alto, bello, Don' Pasqualino Piga aveva la vocazione dell'industria, quasi unico fra i nuoresi, che l'industria non sapevano neppure che cosa fosse. Al limite di Sèuna aveva' impiantato un mulino à vapore, con annesso un pastificio, che riempiva di battiti, come di un grande cuore, tutta la contrada, I palmenti lavoravano giorno e notte, e traH velo finissimo di farina brancolavano le ombre dei figli di Don Pasqualino, che lavoravano come gli operai, più degli operai, con la dedizione tumultuosa che sempre hanno i signori, quando scoprono il lavoro. A mantenere la tradizione restavano in casa le donne (la vecchia Donna Rina, la madre di Don Pasqualino, che era co¬ me un vessillo — basti dire che un pastore di Nuoro che era stato trasportato a Roma, é aveva fatto nuove esperienze, ne era tornato dicendo: altro che Donna Rina, quelle bagascie del continente! —; la moglie Donna Angelica; e le sue tre splendide fighe, una più bella dell'altra), aurcolate dell'antica e nuova ricchezza. I' sacchi di grano si allineavano neU'ìmmensa sala, ed era cosa buona e giusta. Solo che fino a ieri il grano si era macinato a Nuoro nelle mole, cóme quella di zia Isporzedda, una tributaria di Donna Vincenza, con l'asinelio che girava in perpetuo in un piccolo antro senza finestre. Le donne portavano, reggendoli sul capo, i quarti di grano nelle còrbule ricolme orlate di rosso, e questa non era soltanto una faccenda come un'altra, era anche un atto di carità. Il mulino di Don Pasqualino aveva d'un colpo fermato tutti gli asinelli e spenta la carità, E cosi ora egli si accingeva a spegnere con un soffio tutte le fiammelle di Nuoro, a distruggere il rito della accensione del lume nella casa del povero e del ricco, a cambiare le facce delle persone illuminandole di una luce diversa. Era il suo destino, era il destino. Le vie del borgo, ancora tutte acciottolate fuori del lungo Corso, si riempivano di fili, che parevano un ornamento. Don Pasqualino era arrivato a portare a Nuoro, chissà di dove, una strana scala, fatta di tante. scale che si infilavano l'uria nell'altra, e la issava ad altezze inverosimili. Maestro Ferdinando continuava a uscire incredulo, col suo povero arnese, ma i ragazzi non lo seguivano più. La luce arrivò in una sera gelida di ottobre. Nuoro era coperta come da una ragnatela, i fili correvano da un capo all'altro delle vie e dei vicoli, e i proprietari delle' case che non avevano un braccio di ferro con le tazzine di porcellana infisso nel muro sì sentivano come diminuiti, perché il senso del nuovo e dell'ignoto era più forte di quello della proprietà. Ma nel Corso, nella antica via Malore, i figli di Don Pasqualino avevano steso i fili di traverso, e ogni trenta metri nel mezzo della strada pendevano le lampadine dai piatti di ferro smaltato. Tutto il paese era uscito di buon'ora per assistere pieno di diffidenza e anche di malaugurio all'avvento. Le donne di buona famiglia occhieggiavano dalle finestre, e ciascuno si teneva per sé i suoi pensieri. Solo il signor Gallus, che era il maestro di ginnastica, ed' era venuto di fuori, disse a voce alta in un crocchio quel che pensava: «Voglio vederle io queste candele accendersi a testa in giù». E d'improvviso, come in un'aurora boreale, queste candele si accesero, e fu fatta la luce per tutte le strade, proprio da San Pietro a Sèuna, un fiume di luce, tra le case che restavano immerse nel buio. Un urlo immenso si levò per tutto il paese, che sentiva misteriosamente di essere entrato nella storia. Poi, gli occhi stanchi di guardare, la gente infreddolita rientrò piano piano nelle proprie case o nei propri tuguri. La luce rimase accesa inutilmente. Si era levata la tramontana, e le lampade sospese nel Corso coi loro piatti si misero a oscillare tristemente, luce e ombra, ombra e luce, rendendo angosciosa la notte. Questo coi fanali a petrolio non avveniva. Salvatore Satìa (per gentile concessione _ . dell'editore Adelphi) Donne nelle strade di Olierta

Luoghi citati: Nuoro, Olierta, Roma, San Pietro