Un "Gattopardo,, nato in Sardegna di Giovanni Raboni
Un "Gattopardo,, nato in Sardegna Un "Gattopardo,, nato in Sardegna UNO degh aggettivi che ricorrono, credo, con maggior frequenza — in ogni caso con significativa, ossessionante insistenza — nelle pagine del Giorno del giudizio è «cupo». E viene spontaneo mettere hi relazione questo rilievo lessicale con la non meno invadente o pervadente presenza dell'immagine del cimitero, inteso non come simbolo della pietà o del rimorso, ma come luogo nel quale le anime dei morti (e, in certo senso, anche quelle dei vivi) stanno effettivamente in attesa dell'inizio della loro «vera e sola storia», cioè, appunto, del giorno del giudizio. Non si pensi a una sia pur «cupa», e radicalmente non consolatoria, visione religiosa, n giorno del giudizio è, per Satta, nient'altro che il giorno della conoscenza : e la conoscenza non ha altri fini o esiti o risvolti all'infuori di se stessa. Essere scrittore, essere narratore vuol dire raccontare se stesso e gli altri con l'unico scopo di liberarsi, e liberarli, della vita. Ma si tratta, purtroppo, di un capzioso e terribile equivoco: raccontando la vita non ci si libera di essa ma, al contrario, ci si rende in qualche modo eterni. Ed è per questo che nella seconda e ultima parte del romanzo — una parte che consiste, non so se per intenzione dell'autore o per imposizione della morte (e in fondo fa lo stesso), di un unico, agghiacciante paragrafo — Satta, o meglio il personaggio narrante al quale egli dà voce, può annotare con assoluta coerenza: «Sento che mi preparo una triste fine, poiché non ho voluto accettare la prima condizione di una buona morte, che è l'oblio». Questa, molto schematicamente, la trama «metafisica» del Giorno del giudizio, che riprende e in parte capovolge quella famosa della Recherche proustiana. Ma accanto alla trama metafisica, e intrecciandosi fittamente ad essa, corre nel libro una trama reale: la vita di alcuni personaggi, e principalmente di una famiglia della borghesia benestante, nel contesto di una società dram m africamente caratterizzata e spaventosamente immobile (e tuttavia percorsa, in segreto, da crepe fini e profonde, da lente e inarrestabili spinte disgregatrici) come poteva essere quella di un luogo urbano della Sardegna tra gli ultimi due decenni del vecchio secolo e i primi due o tre decenni del nuovo. Questo luogo è Nuoro, di cui, come ci ricorda Satta, nessun vero sardo può non sentirsi in qualche modo cittadino; e lo scrittore ce la descrive, o meglio ce la raffigura con violenta sobrietà, con una sorta di nera concentrazione, nelle tre parti — idealmente lontanissime tra loro — nelle quali essa, come la GaHia di Cesare, è divisa. Cè Sèuna, la Nuoro bianca e celeste dei contadi- > ni; c'è San Pietro, la torva Nuoro dei pastori-padroni; e c'è, infine, la Nuoro del Corso, dei caffè all'aperto, del tribunale, del municipio, delle scuole, insomma la Nuoro dei «signori», «ricchi o poveri che fossero»... In questo scenario tripartito, che è grande merito espressivo di Satta aver reso, ai nostri occhi, angusto e* al tempo stesso immenso, • soffocante e grandiosamente inesplorabile, si gioca la partita eterna, eternamente «truccata», dei vivi (di alcuni vivi) con la morte. Inutile dire che l'interesse della partita non sta nell'incertezza su come andrà a finire, ma nel¬ la varietà dei modi in cui i vivi possono essere sconfitti Il giorno del giudizio fornisce, pur nella voluta rarefazione e emblematicità dei casi, una raccapricciante e, al limite, esauriente fenomenologia della distruzione: dell'uomo e dei gruppi A distruggere è, naturalmente, l'odio, ma anche l'amore; la vecchiaia, ma anche la giovinezza; l'ingenua, frenetica dissipatezza, ma anche l'oculata avarizia; il tarlo della «poesia», ma anche la febbre della «praticità». E alla fine (come neVC Antologia di Spoon River, un libro al quale questo romanzo può essere, per qualche aspetto, curiosamente accostato) non c'è che il riposo —ma un riposo amaro, inquieto, senza dolcezza perché «senza oblìo» —sotto le povere lapidi o nella fossa comune di Sa 'e Manca, il camposanto sovrastato da una rupe «che sembrava una parca». E' destino (un destino, peraltro, niente affatto indecifrabile o misterioso) che alcune delle più impressionanti e persuasive testimonianze della frantumatissima realtà storico-antropologica, passata e presente —o 'presente dentro il passato — del nostro Paese vengano da scrittori «non professionali», da autori di un unico libro maturato hi lunghi' anni di silenzio o attraverso altri modi o forme di partecipazione. E' stato ieri il caso del Gattopardo; ed è oggi quello del Giorno del giudizio, a proposito del quale — come per il romanzo di Tornasi di Lampedusa e, forse, con ancora più valide ragioni — va tuttavia osservato che sarebbe un errore grossolano limitarne la portata a quella del «documento», sia pure insostituibile, anziché riconoscerne e valutarne come si conviene la non comune forza d'impatto e di dilatazione fantastica. Giovanni Raboni
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