Salvatore Satta, un romanziere nascosto di Giulia Massari

Salvatore Satta, un romanziere nascosto 'editore Adelphi scopre una saga nuorese scritta dal noto giurista Salvatore Satta, un romanziere nascosto ....... Sta per uscire da Adelphi un romanzo sconosciuto di Salvatore Satta, uno dei maestri de! diritto italiano, nato a Nuoro nei 1902 e morto a Roma nel 1975. Il libro, che è una saga ambientata in Sardegna, s'Intitola «Il giorno dei giudizio» (pagine 292, lire 6500). ROMA — Moltissimi anni fa, il professore Salvatore Satta lesse nei «Corriere deiia Sera» un articolo di Marino Moretti in cui si parlava di un manoscritto che gli era capitato un tempo fra le mani, inviato a un premio. Era un breve romanzo, intitolato «La veranda». Elogiandolo, lo scrittore chiedeva che cosa tosse accaduto del libro e del suo autore, poiché mai più ne aveva avuto notizia attraverso il mondo delle lettere. Satta gli scrisse: sono diventato un giurista, scrivo solamente di legge, lavoro a Genova e quel romanzo non è mai stato pubblicato, anzi non lo posseggo più. «La veranda» era stato scritto nel 1925, quando Satta, un giovane sardo che la sua benpensante famiglia aveva avviato a studi giudicati più seri che non quelli letterari, cioè a studi di legge, aveva avuto una esperienza di sanatorio. Lo aveva scritto come per uno sfogo, poi dimenticandolo, o almeno • riponendo U ricordo in un angolo della memoria. Quando uscì l'articolo, Satta era un rinomato giurista, specializzato nel diritto processuale civile, si era sposato con una giovane triestina conosciuta a Padova, aveva due figli piccoli. Ora. di quel medesimo Satta, diventato poi sempre più noto nel suo campo, autore di numerosi studi e saggi e di quel Commentario al codice di procedura civile che è ancora un importante libro di testo, Adelphi pubblica, postumo, «Il giorno del giudizio». E' la storia, tra la fine del secolo scorso e i primi decenni del nostro, di una famiglia di notai di Nuoro e di un gran numero di personaggi che attorno a questa famiglia, che poi è l'autorità, ruota,' per poi finire tutti in quel luogo comune che altro non è che la morte. ( Questa vicenda ha un suo senso, preciso: come un filo sottilissimo lega il primo romanzo mai pubblicato a quello che ora esce. Es- sendo nato nel 1902,'Satta quando scrisse «La veranda», cioè nel 1925, si apriva alla vita ma la vita invece per lui si chiudeva quando co-, minciò a scrivere «li giorno del giudizio»: pochi mesi prima della morte, che sarebbe stata rapida, e significativa, la malattia colpendolo proprio nel cervello, egli ancora perfettamente sano lamentava di sentirsi mancare la vena creativa, quella vena che per quattro- anni lo aveva ispirato a ricoprire fogli su fogli'con la sua «saga» nuorese, rubando tempo ai suoi cari volumi di diritto. La vita si apriva, la vita si chiudeva al segno della letteratura: ma cinquantanni, più di cinquantanni erano stati vissuti fra studi di altro genere, ricoprendo alti incarichi, insegnando nelle università, frequentando i tribunali, riconoscendo Capograssi e Chiovenga fra i suoi maestri, nomi che la letteratura conosce solo se bene informata. C'era evidentemente in quest'uomo una specie di bivalenza. Una bivalenza che era anche di carattere. All'università di Roma, dove Satta, uomo di. tradizione, un conservatore che però gli studenti non attaccavano, e dove ha insegnato ... per molti anni, essendone anche il preside, lo ricordano molto riservato, addirittura altero, chiuso per ore nel suo studio, improvvisamente gentile e sorridente quando ne usciva, soprattutto gentile col suo autista, con i bidelli, con gli sconosciuti che gli venivano attorno, nnasi mai era aHe°ro: o lo era come un fanciullo, per delle cose da niente, li sorriso come sospeso, gli occhiali che portava fin da giovane per una miopia non esagerata, una lieve curvatura del suo corpo che era stato molto magro, erano connotati di intellettuale: e, in più, una tristezza profonda. Malinconia sarda, si doveva, si dovrebbe dire. Ma perché malinconia sarda? Malinconia di vita, come dimostra, fra l'altro, questo libro che le persone che gli erano vicine descrivono come una preparazione alla morte. Ma ambivalenza, anche. Perché, quando si ritrovava con gli amici, che non erano molti, ma carissimi, e alcuni dei quali lo chiamavano Bobore, come in sardo si dice Salvatore, egli era un conversatore di grande fascino, sempre pronto al paradosso, dal parlare forbito, Con gii amici, e soprattutto con la mogiic e con i figli, lui che aveva avuto sempre presente la morte, era vitale. Aveva due figli; uno fa il fisico, l'altro ha seguito la sua medesima strada. Aveva questa moglie, studiosa di letteratura slava, a cinquantatré anni ha deciso, su consiglio di questo marito tradizionale e dunque legato a una diversa concezione della donna, di prendere la docenza, e ora insegna a Perugia. Aveva questa casa, in via Cavalier d'Arpino, dove le carte e i volumi sono rimasti al loro posto, e una lunga fila di suoi studi e saggi che hanno tutti prefazioni da letterato, più che da uomo di legge. Ben poco è nutatc, in questa casa. C'è uno studio con una vetrata molto vasta da cui si vede il panorama quasi americano di corso Francia, che nei giorni di luce si spalanca fino' al monte Soratte: due alti alberi, un cipresso e. un leccio, quasi sfiorano la vetrata. Lui lavorava al suo tavolo, e la moglie in una,stanza vicina. Poi lui sedeva in un divano di fronte .. . . j~ i~ A,.i 1 „ alla vetrata, dove le luci della città erano come fiamme leggere. Leggeva, soprattutto libri di letteratura. C'era una casa a Fregene, dove aveva cercato di far costruire, senza riuscirci, una loggia in stile sardo, e poi i viaggi, tanti viaggi: l'Eu-" ropa, osservata attentamente, l'America, pae<=i lontani. Grandi viaggi in cargo, perché ai luoghi sconosciuti bisogna avvicinarsi con rispetto e preparazione, lunghi viaggi in treno. Passeggiate domenicali, a piedi. Gite in bicicletta. Qualche piccola polemica, quasi sul filo dello scherzo: su Proust, per esempio, che non aveva letto nella prima metà della sua vita, e che poi aveva comprato e continuato a non leggere, nonostante gli incitamenti della moglie e di uno dei figli, o su certe mode, come ia semiotica, lo strutturalismo. Lui leggeva e rileggeva Manzoni; e Leopardi; Dante; Cicerone. La sua profonda tristezza, in casa, si cambiava in un senso di compiutezza, di soddisfatta vitalità. Credente, non praticava: solo l'ultimo giorno dell'anno andava a sentire il Te Deum, dovunque si trovasse. Ma sul finire della vita, come da molto lontano, gli affiorarono alle labbra le semplici parole delle preghiere infantili. Questo libro, i suoi eredi lo hanno pubblicato senza cambiare una virgola, anche se pensavano che in qualche punto lui.avrebbe corretto o riveduto. Lo hanno pubblicato presso una casa editrice di pubblicazioni giuridiche, la Cedam di Padova, cosicché lo si poteva trovare, in libreria, solo negli scaffaligiuridici, quindi era praticamente ignoto: poi qualcuno ne ha parlato con Roberto Calasso, il cui padre era stato amico di Sitta, e ora il libro esce nelle lineari e raffinate edizioni Adelphi. «Questa era la casa editrice per lui — dice Laura Satta Boschian, e i suoi occhi hanno per un momento il lampo della ragazza, che un giorno si presentò dal professor Lo Gatto, a Padova, per dirgli che voleva laurearsi in letteratura slava, ma doveva cominciare dalla grammatica — Gli sarebbe piaciuto infinitamente». Giulia Massari Sah/atore