Cercai il mare, che è il mio cielo

Cercai il mare, che è il mio cielo Cercai il mare, che è il mio cielo di Enzo Majorca ABITO in Ortigia, l'isolotto collegato a Siracusa e alla Sicilia da un ponte che scavalca un braccio di mare chiamato dai marinai «A ventre ro vuoi», intendendo con questo dire che. anche quando la bufera imperversa, le barche, all'ormeggio nel Fosso, sono al sicuro come dentro lo stomaco di un bue. Dal terrazzo di casa, appoggiai con i gomiti sulla balaustra rossa di mattoni, tra gerani policromi che, nonostante l'inverno, suggevano linfa vitale, quel pomeriggio contemplavo il mare disteso ai miei piedi. Non un'onda l'increspava. Si allargava, piatto e fluido, ergendosi sullo sfondo in lontananza a contrastare il cielo con il turchino. D. silenzio della città deserta era rotto, a tratti, da un roco stridere di gabbiani e da un andar di gatti per vicoli segnati da impronte millenarie. Ortigia, da quassù, tra questo digradare di tetti ocracei verso la riviera, appariva intimidita dalla solitudine: arrivavo perfino a distinguere il passo felpato dei mici tra i miagolii di amori precoci. Fuori, sul mare, una processione di pescherecci, con le reti a rimorchio per lavarle, faceva rotta verso il porto, a lenti moti in un asmatico ronfare di motori, salutati sulla scia da una remigante scorta di gabbiani in frenetica ridda. I marinai tornavano in terra, per godersi la festività preannunziata da scoppi di mortaretti che nei rioni nuovi di Siracusa turbavano aerei spazi, echi lontani di una vita che allignava cospicua nella civiltà del cemento armato. In altri anni, le vie sottostanti sarebbero state affollate da donne le quali, con teghe di focacce tra le braccia, si affrettavano verso il forno più vicino: frettolose, confuse dal volare delle ore. consapevoli che si sarebbero trovate a sera senza avvedersene, smarrite in un nervoso chiacchierio. I bambini, presi dall'atmosfera festaiola, trascurati dalle madri affacendate, avrebbero strillato ancor di più durante i loro giochi, come stormi di rondini che volino basse neU'imminenza del temporale. Nelle case, vecchiette •lutto avrpKj-—deì tavoii_,£ pra il .rnariui0 dei 1& pasta fusa del torrone, tagliandola in losanghe prima che si consolidasse, raffreddandosi. Dalle osterie, voci roche di avvinazzati avrebbero conteso al cielo punti di scopa. Sul tardi i marinai sarebbero tornati a frotte dal Fosso, con i remi e l'antenna e le vele sulle spalle, a passo oscillante ed incerto, come invece decisi erano stati in mare. I bambini sarebbero corsi incontro ai padri e ai nonni in chiassose effusioni. Il silenzio più assoluto dominava invece la scena di Ortigia e nessun aroma in cielo tranne che quello del mare vicino. Era la vigilia di Natale! Questo in cui abito era, negli anni passati, il quartiere dei marinai: quando il mare si accaniva contro la scogliera, in un gareggiare di schiuma contro rocce candide, rendendo impraticabili i turchini sentieri, i marinai trascorrevano le giornate in- trecciando giunchi per nasse o ricucendo reti, aggiungendo toppe alle vele già colorate* da innumerevoli rammendi, oppure, abbandonandosi all'ozio, sedevano per strada o nei cortili, a chiacchierare e a fumare; mentre le donne accudivano agli impegni domestici, liete soltanto di ave-' re gli uomini in casa. Anche i marinai hanno ormai abbandonato Ortigia: vecchie dimore abbellite da panciuti balconi, ballatoi arditi e ringhiere in ferro battuto, androni e cortili che si inseguono come in una fuga di ombre e di luci, sono ormai deserti e dirupi, vecchie signore che si lasciano andare ormai stanche di vivere. Una barca ritardataria mi mostrò il verde del fanale di via, drizzando la prua al centro della bocca del porto; vidi la luna che, facendo capolino all'orizzonte, trapassava il mare come una spada infuocata sfrigolante in un'incertezza di contorni: piena si alzò, rimbalzando sopra coltri oscure, a congiungere in un tripudio d'argento scogli ancorati alla terra con maestose libertà. Sul muro che domina, lattescente, la mia terrazza, intravidi un geco sornione: tentava di avvicinare un grillo che, in una notte d'inverno inoltrato, friniva, forse impaniato nella malinconia per la trascorsa estate. Il geco riuscì a saziare il suo stomaco con un repentino guizzo. Era la luna piena di dicembre ed era la vigilia di Natale dell'anno passato; come in altri pleniluni mi sentii riempito dalla frenesia del licantropo e dal desiderio di un turchino lavacro purificatore: che dalle scaglie di sale rovente di freddo avessi io potuto trarre quell'intimo candore con cui, in occasioni simili, nei tempi passati, ero solito avvicinare il mio prossimo per augurargli: «Buon Natale!»? La casa mi stava stretta come se indossassi un abito dell'infanzia, e, nonostante il profumo della festa tra le stanze, temporaneamente l'abbandonai: volevo godere anch'io della ricorrenza, però dopo essermi cambiato di vestito. Quello entro il quale mi sentii costretto era troppo unto dalle chiazze d'olio delle impurità: per avvicinare Maria, mia moglie, e Patrizia e Rossana, le mie figlie, e dir loro: «Buon Natale!» non volevo compiere una liturgia, bensì esprimere un sentimento. Mi accorsi che da tutto un giorno non avevo fatto altro che attenermi invece ai doveri di un cerimoniale! Fui sazio di cielo e riempito di desiderio per il mio cielo di subacqueo: il mare. Ognina è un profondo golfo che si insinua nella costa a Sud di Siracusa: mi diede il benvenuto, ammantata nella sua magica vita in bianco ed in nero. L'aria era intrisa di mentuccia e di mirto, che a macchioni spiccavano scuri contro le opalescenti logge circostanti. Le barche, attraccate al moletto, ricavavano dai selenici raggi concerti di colore evanescente: tra questi, un gozzetto di ventidue palmi era l'unico ad esibire una luce fioca che filtrava tra le maglie lasche della vela tesata e spiovente sull'antenna del latino che l'attraversava da prua a poppa. Conoscevo la barca e il marinaio che la navigava, lo zio Jano «poppa tonda», vecchio pescatore afflitto dai reumatismi il quale, nell'età della canizie, è stato ribattezzato con tale nomignolo per la pinguedine che gli tornisce i fianchi, costringendolo a muoversi sulla terra sculettando come una barca dalla poppa tonda che proceda a gran lasco tra le onde. ★ * Stava di certo finendo di rassettare gli attrezzi da pesca, in attesa che uno dei suoi tanti figli venisse a prenderlo perché non trascorresse il Natale in solitudine. Accostai la macchina al bordo del molo e, scendendo, invece distinsi tra gli altri aromi, odori di pomodori, di capperi e di pesce, come se lo zio Jano stesse cucinando cernia alla matalotta. Incuriosito, lo chiamai. Il vecchio marinaio venne fuori da prua, scostando un lembo della vela chiazzata di muffa. Appena mi vide, a sua volta curioso, mi chiese : «Lei qua che fa?». «Sto andando a mare». «Poveri pesci! Neanche nella festa li lascia in pace?». « Vado soltanto a fare visita al mare!» gli risposi, quasi risentito. «La vecchiaia è puttana! Dimentico sempre che lei i pesci li accaressa». Disse ridendo, prendendomi in giro. «Piuttosto, voi che fate qua, con tutti i figli ed i nipoti che vi aspettano!». «Signor Majorca, ad Ognina ho vissuto la mia vita con la sia Vannina, buonanima! Se a Natale non le faccio compagnia io, chipensa a lei?Ifigli? I nipoti? Della povera morta quelli se ne ricordano solo nel giorno dei morti: adesso io invece ceno, bevo un bicchierotto di vino, di quello buono, rosso dolce e forte come piaceva alla buonanima; guardo poi la stella imponente, sulle montagne, lassù», e nel dire così rivolse gli occhi al cielo, quasi a controllare che Venere non fosse stata derubata dalla Luna del suo sfaccettato brillare, «e mi addormento pensando a Vannina!». «Passo a salutarvi prima di ritornare a Siracusa». Gli dissi. Andai alla ricerca del mio cielo e mi immersi dal promontorio nero di scogli ricamati d'argento, con cui Ognina si protende in mare, in un precipite e subitaneo cadere di rocce. Per raggiungere il mare, scavalcai pozze d'acqua che tenevano in cattività la luna. Paludato nella tuta di neoprene, con l'autorespiratore sulle spalle ed una torcia subacquea in mano, mi calai in mare. Non mi andò di accendere la lampada; da quel basso fondale, che conoscevo ormai da anni, il chiaroscuro mi venne incontro, smorzato nelle sue tonalità più vivaci: il luccichio dell'argento si addolciva in una mitezza gessosa mentre un intenso diffuso turchino laccava le tenebre. Penetrai quei silenzi verticali: una tellina capovolta occhieggiava nella sabbia circostante come uno scrigno ricolmo di tesori di luce. A quattro metri di profondità mi adagiai su un tappeto soffice di sabbia, per guardare il mio cielo: non una luna, bensì dieci, venti lune, si rifrangevano sulla superficie ad inviare attraverso spazi liquidi sprovvisti temporaneamente di proprie dimensioni, dieci, venti colonne di luce per chiazzare ondulati declivi di sabbia. In quella statica ondosità fatta di granellini, il mare, con la soavità della risacca, stampigliava lieve le sue ombre, come sfumature aeree di nuvole. Mi misi in ginocchio per guardare meglio: nel movimento, un argenteo pulviscolo mi scintillò intorno, conferendo calore all'ambiente, si sollevò, formò una cupola nella tregua della corrente. Quella cappelletta, adornata di sogni e di speranze, incastonò il volto di un ragazzo bruno e ricciuto, dal sorriso franco e cordiale, dagli occhi vivaci e neri del colore di olive greche. In quei secondi, che avevano la profondità dei secoli, riconobbi Marcello Salina e lo rividi così come lo avevo visto solo quattro mesi prima; prima che si allontanasse dalla terra verso sideree distese. Quando del resto suono l'immensa campana turchina, il cui battaglio non è fuso in metallo bensì impastato di guizzanti luci, chi può esimersi dal seguire il marino richiamo? Mi venne di pensare che avevo visto Marcello, per l'ultima volta, nella prima settimana di ottobre. Mi trovavo in questo stesso fondale con un amico, a cui stavo insegnando l'uso corretto dell'autorespiratore. Ho sentito un tocco di mano sulla spalla e, girandomi di soprassalto, come sempre capita in mare quando non si aspettano visitatori, ho trovato dinanzi a me Marcello, gli occhi ridenti dietro il cristallo della maschera, per la marachella riuscita: in apnea, mi faceva ampi gesti di arrivederci. Si accingeva a tornare ad Arona sua città natale. Da allora non l'avevo più incontrato: aveva lasciato i suoi anni in fondo al mare, dinanzi alla baia di San Fruttuoso, fuori la statua del Cristo degli Abissi che, da una profondità di 18 metri, pietroso nello sguardo, braccia e volti protesi verso il cielo, implora con gli occhi misericordia per i fratelli subacquei. Anche quella sera Marcello mi sorrideva; la cappelletta d'argento si era nel frattempo disciolta intorno a lui e gli arabeschi colavano in rivoli per depositarsi sulla sabbia; i sogni e le speranze dei suoi vent'anni che, in tanti quadretti, l'agghindavano, come tappe di una Via Crucis dipinta su tela da un ingenuo pittore, andavano sparsi sul fondo, foghe morte d'autunno destinate a marcire nel freddo dell'inverno o ad essere prese nel vortice del primo vento: non erano rimpianti suoi. Lo vidi ormai in piedi sulla sabbia, con una mano poggiata sulla prua d'una barca più bianca della sabbia stessa: aitante e snello, tanto abbronzato da mettere ancora più in risalto le linee armoniche del suo corpo contro il niveo palcoscenico costruitoci dalla luna, gli occhi gli brillavano allegri. Mi sembrò Ubero come un albero sprovvisto di chioma, non incupito da fronde, non pesante di verde, non oppresso tra zolle da fardello di virgulti, libero di lottare con le refole, in attesa della primavera eterna. Pensai che sarebbe sopravvissuto negli anni, dall'alto del monumento d'ideali della sua giovinezza. Salutandomi con le braccia, con il suo passo dinoccolato che sollevava fontanelle di luce dal fondo sabbioso, fece il giro della barca bianca, e da sinistra armò l'albero e l'antenna, issando la vela alla corrente: la vela latina splendette intessuta di raggi di luna. Passò a poppa, al timone, mentre lo scafo sgusciò lieve sul fondo come una chiglia sul mare; la vela era ricolma di mare. Si lasciò dietro una scia di polvere, sfavillante che si inchinò verso la superficie. La sua voce si fuse in un coro di naiadi, giungendomi alle orecchie: «Quando tornerai qui, poiché non vivo più sulla terra, guarda il cielo e scruta il mare: là sono la mia anima ed il mio corpo!». Fui preso dalla voglia di seguirlo: sentivo contro il volto il mare turbato dal brivido di spostamenti di acqua e percorrevo il sentiero che, come una nuvola d'argento, si dirigeva incontro al cielo. Arrivai in superficie giusto in tempo per vedere una stellina che, lieve ed iridescente come una bolla di sapone, saliva in diagonale, sempre più in alto: contro il suo luccicore una testa ricciuta di ragazzo spiccava bruna. Dalla chiesetta di un paesino che brillava tra le prime balze dei monti, neri contro il cielo, arrivò sul mare, portato dal vento che alitava, un allegro stornire di campane: come se distinguessi lontani suoni di organi e odori d'incenso, intuii che Gesù era nato. Nelle capanne intorno, il frinire dei grilli e le rane che gracidavano tra le canne agitate dalla brezza di terra, furono il saluto al bambino della natura incantata nella pioggia di luna. Il mare mormorava la canzone che ha sapore d'eterno. Tornai a riva. Ripercorsi la strada fatta all'andata, per tetto non la cappotta dell'auto, bensì il cielo. Sul molo zio Jano passeggiava come se mi stesse attendendo. «Buon Natale, signor Majorca!». «Buon Natale, sio Jano!». Non abbracci, non baci, non strette di mano. Le parole erano grevi di sentimento. «La stella imponente si è arricchita di un granello d'argento!» esclamò U vecchio guardandola. Malìa del mare od incanto di un Natale?

Persone citate: Enzo Majorca, Fosso, Gesù, Majorca

Luoghi citati: Arona, Ognina, Sicilia, Siracusa