Bonfantini, da Rabelais al racconto partigiano
Bonfantini, da Rabelais al racconto partigiano Bonfantini, da Rabelais al racconto partigiano UN padre sindaco socialista di Novara negli anni caldi dell'occupazione delle fabbriche, un nonno materno fuggito a diciassette anni per raggiungere Garibaldi, un prozio bersagliere alla presa di Roma: veniva «per li rami» a Mario Bonfantini, scomparso il 23 novembre scorso, a 74 anni, quel gusto della competizione, quell'ottimismo vitale, quella dialettica tra cultura e natura che si ritrovano nella sua lunga e proficua attività di studioso di letteratura francese, di traduttore (chi meglio di lui avrebbe potuto rendere la pienezza istintuale che regge il Gargantua di'Rabelais?), di narratore. Bonfantini sta tutto in quel suo personaggio di partigiano che, durante una traversata delle Alpi in pieno inverno, per salvare se stesso e i compagni mette in pratica gli espedienti letti in un romanzo di Giulio Verne chissà quanti anni prima. Con la stessa cordialità di umanista che ama l'aria aperta aveva fondato «La Libra», una rivista polemica di giovani, lavorato come reporter sportivo, collaborato alla sceneggiatura del Piccolo mondo antico di Soldati. Entrato nel 1943 nelle Brigate Matteotti, riuscì a fuggire dal vagone piombato che lo deportava in Germania, riprese a combattere sulle montagne 'Iella Valdossoia. La guerra partigiana gli dettò l'autobiografico Un salto nel buio (1960), La svolta (1965), altri racconti poi disposti in due raccolte einaudiane degli ultimi anni: Sul Po (1974) e L'amore di Maria (1977), formicolanti di figurette ritratte con partecipazione affettuosa, tra paesaggi ariosi, amori precari e struggenti, avventure vissute con l'allegria di un moderno pìcaro. Bonfantini seppe muoversi con naturalezza tra il dramma e l'idillio. Con Scomparso a Venezia (Einaudi 1972) ci aveva dato un apologo moderno, tenero e sorridente: quello di un uomo d'affari — nuovo Mattia Pascal — che trova la sua vera identità lasciandosi inghiottire da una vacanza imprevista e dall'amore devoto di una popolana dalla voce franca e dagli occhi cangianti. Ernesto Ferrerò
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