Via con il vento della grande Cina

Via con il vento della grande Cina Un americano racconta la saga di una famiglia dall'inizio del secolo alla rivo Via con il vento della grande Cina Pubblichiamo per gentile concessione dell'editore Bompiani alcune pagine del romanzo «Dinastia» di Robert S. Elegant. Afianco dell'Air Force One, un Trident di fabbricazione britannica se ne stava in disparte dallo stormo di aerei civili. Rivelato a tratti dalla nebbia fluttuante, il suo piano di coda mostrava un gruppo di cinque stelle d'oro su un rettangolo rosso. Con un volo senza scalo da Pechino, il Trident aveva trasportato un riluttante generale Shih Ai-kuo, membro del Comitato centrale del Partito comunista della Repubblica popolare cinese, e il vice-commissario politico dell'Esercito di Liberazione del popolo cinese. Incongruamente appaiati, gli aerei dell'aeronautica statunitense e dell'aeronautica del popolo cinese erano pesantemente sorvegliati. Brigadieri e agenti della regia polizia di Hong Kong in impermeabili neri erano scomodamente rannicchiati, grondanti, sotto le ampie fusoliere. Attraverso gli scrosci d'acqua, insegne luminose risplendevano debolmente nella massa oscura dell'isola di Hong Kong, dall'altra parte odella baia. Le azzurre lettere nettamente squadrate alla sinistra dicevano: Hong Kong Hilton. Più lontano, sulla destra, una gialla «M» contrassegnava il Mandarin Hotel. Fra quei luoghi di piacere del molle Occidente, quattro angolosi caratteri cinesi foravano la notte con vividi raggi rossi. Essi proclamavano: Viva il presidente Mao! Nel suo appartamento, cinque piani sotto la grande M, il sottosegretario di Stato guardò nello specchio per aggiustarsi la. cravatta a farfalla. Finalmente soddisfatto, fece scivolare intorno al collo il nastro rosso con la stella rossa e bianca della Legione del Valore e si appuntò una fila di decorazioni in miniatura sul risvolto di seta della marsina. Contemplò con approvazione la sua bella figura leggermente florida, leggermente corpulenta. «Maledizione, Bianche! » brontolò Spencer Taylor Smith rivolto alla moglie dai capelli color miele. «Cosa diavolo mi fai fare? La vecchia va bene. Ma perché dobbiamo mescolarci a questo branco di gialli e di giudei? Notabili orientali ed ebrei, suppongo che dovrei chiamarli. E come diavolo dovrei chiamare il generale Shih? "Zio James"?». La donna snella dai profondi occhi azzurri si alzò dalla toeletta. Tranquillissima, si agganciò una collana di diamanti e zaffiri intorno al collo sottile. «Adesso, Spence», disse con voce piana, «tirami su la cerniera, per favore». n sottosegretario borbottò di malumore mentre chiudeva l'abito di broccato verde sulla schiena color avorio della moglie. «Puoi chiamarlo come cavolo ti pare, per quanto mi riguarda». La voce di Bianche Smith era irritata. «"Generale Shih", "onorevole collega", "zio James" oppure "bastardo di un comunista". Non parlargli affatto se non vuoi. Io ti ho chiesto semplicemente di venire per il compleanno di Lady Mary... Io non mi lamento mai dei tuoi interminabili e noiosi banchetti ufficiali». «Potrebbe essere maledettamente imbarazzante», mugolò il sottosegretario. «Sono certa che te la caverai bene, caro. Ce la fai sempre. Potrai perfino incantare quegli ipocondriaci dei francesi. E non dimenticare che hai sposato una di quei gialli e giudei». «Scusami! ». H sottosegretario era momentaneamente ammansito. «Andiamo?». Nell'attico anacronisticamente lussuoso in cima al palazzo della Banca della Cina, il generale Shih Ai-kuo era solo coi suoi presentimenti. Sua moglie, Lu Ping, membro delegato del Comitato centrale del Partito comunista cinese, si era rifiutata di accompagnarlo a Hong Kong. Di sua spontanea volontà, egli si chiese, o per ordine del Partito? Ma lo stesso primo ministro aveva insistito perché il generale partecipasse alla celebrazione del genetliaco di sua madre. Non era da escludersi, egli rifletté, che i dirigenti del Partito avessero intenzione di fargli fare l'« autocritica» e poi di silularlo. Le istruzioni del primo ministro erano state deplorevolmente vaghe, semplicemente: «Osserva e riferisci». H generale Shih aggrottò le ciglia mentre si tirava la tunica grigio-blu dal colletto alto sulle spalle massicce. Gli occhi nocciola si restrinsero, e l'alta fronte si corrugò al di sopra dei lineamenti aquilini. Soltanto il taglio leggermente a mandorla degli occhi e la tinta lievemente dorata della pelle erano marcatamente cinesi. Compagni all'oscuro delle sue origini supponevano che fosse in parte un turcomanno dell'Asia centrale, ed era raro che egli si curasse d'illuminarli. «Ha novant'anni», borbottò in inglese. «E io ne ho praticamente sessantaquattro, e non la vedo da una ventina d'anni. Naturalmente ho voglia di rivedere la mia vecchia. Ma perché le decorazioni? Nessuno le porta più da anni». Soppesò con aria disgustata due medaghe nel palmo aperto della mano. Ciascuna di loro era larga come un dollaro d'argento e risplendeva di smalto rosso e oro. Raddrizzando le spalle quadrate, si appuntò sul petto la Medaglia di Eroe del Popolo cinese e, accanto a essa, la Medaglia del Primo Agosto. Sarebbe stato più contento con un semplice bottone di plastica con la faccia benevola del presidente Mao Tse-tung. Ma gli ordini ricevuti erano precisi a questo proposito: doveva portare le decorazioni ormai in disuso da un decennio. «Come un dannato generale russo da opera buffa», si lagnò. «E perché non è venuta Ping? Una riunione del comitato permanente dell'Associazione delle Donne, diavolo! Le ha lasciate perdere quando faceva comodo a lei... o a loro». La Mercedes 280SE del generale era in attesa nel garage enorme come una caverna, il cui piano inclinato d'uscita che dava su Bank Street era sorvegliato dagli agenti in borghese del Partito. Benché non potesse indugiare ancora per molto, egli scostò le tendine rosse di seta e alzò lo sguardo al Picco. Grappoli di luci dai casamenti simili ad alveari sulle pendici più basse soverchiavano la nebbia con la loro profusione, e intermittenti lucciole arancione segnavano la via zigzagante che conduceva alle alture. Gli parve quasi di vedere la stretta curva che portava al Castello dei Sekloong, quella mostruosità di ostentazione borghese dove era nato. Una cortina semi-opaca di foschia e di pioggia schermava la montagna, oscurando tutto fuorché un lontano accenno di luminescenza. Sul Picco, la plumbea nebbia cancellava tutte le opere dell'uomo e della natura. L'enorme massa grigia fluttuava al di sopra di ville e residenze, al di sopra di ampie strade e di anguste traverse, di alberi, fiori e rocce. Nel lieve fulgore arancione delle luci stradali al sodio, automobili strisciavano lungo Magatine Gap Road e s'infilavano in Peak Road. Automobilisti sporgevano la testa dai finestrini, cercando di scorgere la bianca striscia centrale per evitare il precipizio alla loro sinistra. Soltanto il diffuso bagliore delle luci avvertiva dell'avvicinarsi del traffico. Le automobili apparivano come baluginanti spiriti meccanici, destinati a essere nuovamente inghiottiti dalle tenebre. Svoltando a destra, una sontuosa RollsRoyce Phantom IV fece risplendere i suoi fari da locomotiva sugli sghembi doccioni a forma di tartaruga a cavallo dell'arco d'ingresso alla via privata del Castello dei Sekloong. Untuosi tentacoli di nebbia si attorcigliavano intorno alle grondaie rivolte all'insù del cancello lungo otto metri e mezzo, e le sue tegole color giallo canarino luccicavano eteree quando la nebbia si diradava per qualche istante. Sull'ampia trave trasversale, illuminata dai fari puntati verso l'alto della Phantom, si contorceva un drago in altorilievo. Gli artigli neri dell'animale fantastico azzannavano bianche nubi, e le sue ali allargate sfumavano dall'azzurro chiaro dell'attaccatura al vivido rosso delle ampie estremità. I suoi occhi scarlatti erano fissi sulla perla splendente davanti alle sue fauci spalancate; nella luce che si spostava sembrava che il grande rettile fosse proteso verso l'irraggiungibile gemma. Ciascuna delle zampe dell'animale aveva quattro artigli, perché soltanto il drago dell'imperatore poteva mostrarne cinque.Ma la sua tinta era indistinguibile dal giallo imperiale, e l'altorilievo era di squisita fattura come nessun altro al di fuori della Città imperiale di Pechino. Il drago rappresentava il potere temporale e spirituale dell'imperatore, poiché egli era Tien-tee, il Figlio del Cielo. Jonathan, fondatore della casata dei Sekloong, aveva preso il drago alato come suo simbolo quasi un secolo prima, quando regnava ancora l'imperatore. Allora il gesto fu non solo presuntuoso, ma addirittura quasi blasfemo. Ma Jonathan Sekloong aveva sdegnosamente respinto le scandalizzate rimostranze dei suoi contemporanei. Egli era nato, diceva, a Sekloong, parola che significa Drago di Pietra, e aveva assunto come suo sia il nome della città sia il relativo simbolo. La madre cinese non aveva potuto dargli il proprio nome, e il padre irlandese non aveva voluto. Durante gli anni successivi, quel simbolo estremo di grandezza aveva finito per non sembrare esagerato di fronte ai meriti di Jonathan. L'imperatore era stato detronizzato, e la Ta Ching Chao, la Grande Pura Dinastia, era stata abbattuta. Ma Jonathan Sekloong aveva prosperato, edificando un grande impero commerciale e fondando una dinastia che era durata. I suoi meriti erano stati riconosciuti con due cavalierati britannici e, in seguito, con un titolo di baronetto, ed era morto come Sir Jonathan all'età di novantasette anni, nel 1950. I passeggeri più anziani nelle berline che arrancavano lungo la strada del Picco ricordavano il temperamento autoritario di Sir Jonathan. Ancor prima della sua morte, avvenuta vent'anni prima, egli era più un mito che un uomo. La sua vita e quella dei suoi discendenti riempivano le cronache di oltre un secolo della tumultuosa storia della moderna Cina nonché di quell'anomalia unica che aveva profondamente influenzato il violento destino del paese più popoloso del mondo: Hong Kong, governata dagli inglesi e abitata dai cinesi. Nonostante l'approssimarsi del tifone, quasi un centinaio di discendenti e parecchie centinaia di ospiti era- t no riuniti per rendere omaggio a sua nuora in occasione del suo novantesimo compleanno. Il loro omaggio era reso ugualmente allo spirito della colossale figura che aveva gettato un ponte fra l'Oriente e l'Occidente. Benché Lady Mary Sekloong fosse di per sé una leggenda, la Matriarca sosteneva di non essere che la legataria del Vecchio. Quando Hong Kong parlava del Vecchio — o quando un qualsiasi Sekloong, dovunque si trovasse, usava il termine — si riferiva soltanto a Sir Jonathan. [...] LAPY Mary tese le^braccia a suo figlio James, che il mondo conosceva come generale Shih Ai-kuo, vicecommissario politico dell'Esercitò di Liberazione del popolo cinese; Lady Mary, anche se non lo chiamava Ai-kuo, era orgogliosa della sua aria distinta, pur nell'austera tunica grigioblu. «Più tardi dobbiamo parlare, James», sus- Una strada di Hong Kong