Napoli in dialetto vive di nostalgia

Napoli in dialetto vive di nostalgia Continua la nostra inchiesta sulle letterature regionali: Napoli Napoli in dialetto vive di nostalgia Una letteratura dialettale che non trova i suoi momenti di maggior fioritura nella prosperità o nello splendore ma nel ritorno malinconico alla prosperità e allo splendore. La poesia umbratile di Eduardo de Filippo e il panorama anonimo e sciatto delle ultime generazioni. La nostra inchiesta sulle letterature dialettali tocca questa volta Napoli. I precedenti articoli erano dedicati a Trieste e Venezia Giulia (Magris), Emilia e Romagna (Marabini), Sicilia (Pasqualino), Lombardia (Cucchi). Basilicata (Trufeili), Sardegna (Mundula), Veneto e Trentino (Alberto Frasson). NAPOLI — Ricordare la solenne dichiarazione iniziaie con cui Giuseppe Gioachino Belli esponeva. neii'inrroduzione ai suoi Sonetti, iì suo proposito e ii suo programma di artista? «Io ho deliberato di lasciare un monumento di Quello che oqqì e la plebe di Roma-. Proposito certamente e magnificamente realizzato, ma attraverso la cui attuazione prolifera e via via giganteggia l'individualità e la nevrosi di lui poeta, sicché il romanesco, che per l'artista era stato in principio, come scrive Giorgio Vigolo. un mezzo violento di spersonalizzazione, diventa alla fine ii suo proprio e più personale linguaggio, con tutti i segni espressivi ed espressionistici di quella nevrosi. E" la conferma —come anche avviene per un Meli, per un Porta, per un Di Giacomo, ciascuno *-kT*T ~ì O T"V-t C r\ T ti >~i ì r\ T>*»/-iv»w r\ U » * lUlliCil <JV- Wll jJ.UJJi^. accentuazioni e la propria musica —che il vero, grande poeta dialettale e quello che meno si omologa alia medietà ed all'usura del dialetto come «ridondanza», e ne fa l'unicum della sua propria invenzione espressiva dietro la maschera di una apparente coralità. Ma la fortuna di una letteratura dialettale, che paradossalmente parlando potremmo dire molto più «letteratura-, di quelle in lingua, in quanto ben più rara è in essa la quanta, la statura e la presenza di grandi e originali poeti di contro alla folla e alla ripetitività dei verseg- giatoru è per questo assai maggiormente legata alle condizioni sociologico-culturali dei popolo che la esprime: e trova i suoi momenti o periodi di maggior fioritura — indipendentemente dalle sue voci più veramente poetiche ed alte —non nell'integrazione ma nell'opposizione, non nella prosperità o nello splendore ma nel riandare nostalgico alla prosperità e allo splendore: addirittura, oseremmo dire, nell'epigonismo. Sotto questo aspetto la poesia e la letteratura dialettale napoletana ci sembrano particolarmente probanti. Poco dopo il 1442, regnando Alfonso i d Àrasona. il dialetto è assunto per decreto regale a lingua ufficiale, e tutti gli atti amministrativi e politici dello Stato vengono redatti in quel linguaggio innalzato da parlata del popolo a strumento espressivo codificato della vita pubblica. Ma proprio in questo periodo si può dire che non esista quasi alcuna forma di letteratura « napoletana», tranne alcuni divertimenti di umanisti o canti popolari di scarsissimo valore. Ed ecco: appena nel 1554. con Ferdinando il Cattolico, il dialetto viene bandito dalla Corte e dai pubblici uffici, e lmgua uffej;5J£ ^ dichiarata quèlfà'^p^tgn'cffk'. • si assiste non solo a una improvvisa imprevista fioritura della produzione letteraria napoletana, tale da consentire di riconoscerla per la prima volta come una «letteratura», ma a quella che si può definire la sua prima epoca d'oro, che intorno a Giambattista Basile, allo Sgruttendio e a Giulio Cesare Cortese fa pullulare una generazione di poeti minori, sia di origine popolare che eulta. Un fenomeno, in certo qual modo, analogo avviene ancora alla fine dell'Ottocento. Dopo essere stata una della maggiori capitali d'Europa anche culturalmente, che aveva espresso nel Settecento un Vico e un Galiani (primo studioso quest'ultimo della indigena poesia dialettale, nel suo famoso libro Del dialetto napoletano). Napoli non dà nella prima metà dell'Ottocento alcuna voce notevole né ricupera il livello raggiunto nel XVII secolo. Ma scaduta, con l'annessione, dal rango di capitale, prima di iniziare quella sua lenta progressiva emarginazione rispetto ai nuovi centri della vita nazionale che si vanno coagulando per ragioni politiche geografiche ed economiche intorno a Roma e a Milano, ecco che Napoli ricapitola i suoi fasti di dialetto e intellettualità. Quel fervore letterario ed artistico di fine Ottocento, che seppe attrarre intorno al giornalismo di una Serao e di uno Scarfoglio perfino un D'Annunzio, vide nel sermo vulgaris l'affermazione di un Salvatore di Giacomo e di un Ferdinando Russo. Poeti non dialettali ma semplicemente poeti, specialmente il primo, e tuttavia espressione di un momento nostalgico e sociologico, di un carattere rispettivamente lirico e realistico della poesia napoletana: caratteri e ambivalenza che le sarebbero poi rimasti tipici fino ai giorni nostri, in un panorama, oggi soprattutto, estremamente dimesso e sconfortante. Alla anemia e alla decadenza artistica dei dialetto e della poesia napoletana hanno fatto riscontro, però, due fenomeni inversamente poetivi sul piano della narrativa in lingua e della interazione fra dialetto e lingua nazionale. Sotto il primo aspetto, i narratori napoletani del secondo dopoguerra, nel periodo del neoreali¬ smo, con la rappresentazione da essi data del popolo e della piccola borghesia in cifra neorealistica o favolistica e surrealistica (pensiamo in questo senso a un Marotta) testimoniano della resistenza di certi contenuti, anzi della loro esigenza di uscire da una trascrizione immediata quale può essere quella dialettale a una rappresentazione più culturalmente e ideologicamente Eduardo L'altro fenomeno e quello della interazione tra lingua e dialetto. In questo caso il napoletano e stato tra i serbatoi più espressivi e fecondi di linfa e di etimi cui la lingua nazionale abbia attinto, sicché, sono molti i vocaboli di origine vernacola filtrati e riverniciati nel patrimonio linguistico nazionale con tutti gli onori, per la loro carica di immediatezza ed efficacia rappresentativa. A ciò ha contribuito probabilmente non poco (o comunque ne è il documento) il teatro di Eduardo de Filippo, la cui lingua è un napoletano italianizzato o un italiano napolitanizzato, e che è ascoltato e compreso senza difficoltà a Milano come a Firenze o a Torino. Era forse naturale che proprio per questi sbocchi il dialetto e l'anima napoletana, almeno la loro parte più viva, attuale e sensibile al mutamento dei tempi, non realizzassero ormai nella poesia le loro riuscite più degne e più originali. Tolti alcuni nomi di spicco, sia pure in un modo o nell'altro epigonici (un Murolo. un Nico- mediata. qual è più facile si attui nella narrativa in lingua. Una prova di questo processo di affinamento e di ispessimento culturale e ideologico è data dal fatto che quegn stessi narratori 2iaxuio via via abbandonato e superato temi e modi angustamente e tradizionalmente locali o remotamente folclorici,. Hanno reagito all'etichetta di «scrittori meridionali» per essere considerati semplicemente scrittori, scrittori italiani alla stessa stregua dei fiorentini o dei milanesi. In questo senso si può ben dire oramai che una letteratura «napoletana», restrittivamente napoletana, sia del tutto e definitivamente, almeno in lingua, finita. lardi. un Galdieri) i poeti restavano ripetitivi e ancorati a un fondale, scoraggiante e dimesso, sul modulo «Papà sta carcerato e mamma more» e con quella retorica sentimentale cosi perennemente in agguato nel carattere napoletano. La stessa canzone, tranne qualche raro esempio di am- mòdernamento tematico operato da qualche verseggiatore più giovane e più culturalmente scaltrito non è più che un prodotto frigido e spersonalizzato, fatto di luoghi comuni e di elementare rozzezza, che non fornisce incentivo e stimolo ai parolieri né riceve da questi la suggestione di testi più validi e nuovi. Sarà opportuno a questo punto isolare alcuni nomi che entro i limiti di epigonismo o di transizione o di dilettantismo cui abbiamo accennato si distinguono per decoro e una certa personalità. Il gruppo più rilevante è di anziani, legati a forme e motivi tradizionali, alla metrica regolare, alle rime. n decano è l'ottantaquattrenne Giovanni Panza. pittore oltre che poeta, e nipote' di Luca Postiglione, che ci ha anche dato un interessante libro autobiografico dal titolo Una vita per l'arte, e tre raccolte di novelle. I suoi libri di poesia (Nuvola d'oro. Viole) risentono della sua tavolozza per la sobrietà e insieme la vivezza del colore e dell'immagine, e una vena di arguta e patetica sensualità (Cesare e ammore, Rimpetto, 'O core e 'a nanassa), richiama motivi digiacomiani o genericamente topici della poesia popolare, ma con una sua grazia non trascurabile. Secondo per anzianità, ma il primo fra tucti per la statura e l'importanza, non soltanto nell'ambito del teatro Eduardo de Filippo. I suoi versi, riediti di recente da Einaudi, ripropongono in chiave lirica meditativa ironica la stessa tematica dei personaggi delle sue commedie, in un linguaggio semplice, scarno, talora prosaico, più interamente napoletano di quello italianizzato che adopera sulla sce¬ na. Bonarietà, schiettezza, ritmo vitale, napoletanità senza retorica o pirotecnia d'immagini, acutezza e insieme indulgenza verso i difetti umani: una voce, la sua, certo la meno epigonica fra quelle della medesima generazione, e tuttavia inserita in una tradizione che da Raffaele Viviani fino a To»ò e al fratello Peppino ha portato naturalmente l'uomo di teatro e l'attore napoletano ad esprimersi, oltre che in pubblico sulla scena, nel più raccolto e direi sussurrato registro del verso. Personalità straordinaria che ha trovato sul palcoscenico come autore ed interprete la sua più compiuta espressione ma che si riflette in tutta la sua umanità anche in questa sua presenza più umbratile ed intima di poeta. Alfredo Gargiulo, che diede il sottotitolo di «poesie novecentiste» a una sua raccolta del 1937, Maletiempo, è della vecchia guardia quello che maggiormente ha cercato una vena di modernità (più intenzionale che di risultati) e di libertà metriche: ricordiamo Convalescenza, una poesia sulla «luna malata» («sarrà stata malata i povera povera luna; / chella già era tanca / e mo' s'è fatta mèza i nun se cunosce cchiù»; e più avanti: «Na bella nuvola nera / le mette 'ncapo nu scialetto niro») interessante per certi toni insieme crepuscolari e surrealistici. Una vena da abate Galiani è l'aspetto più originale della produzione di Domenico Rossi e Mimi Romano. Il primo illustre ginecologo, e fondatore dell'«Accademia d"e paste crisciute». euforico cenacolo di poeti ed artisti partenopei, ha dedicato al secondo, medico anch'egli ed autore argutamente umoristico nella raccolta Quanno Esculapio ride, un poemetto dal titolo Quanno vola 'a fantasia in cui rinnovando una tradizione secentesca mette scherzosamente in rilievo difetti e virtù dell'amico. E' l'espressione di un costume e di una poetica che si vanno facendo sempre più lontani e inattuali. Last but not least della sua generazione. Maria Luisa d'Aquino, femminilmente appassionata, autrice anche di novelle e di un interessante diario di guerra dal titolo Quel giorno, trent'anni fa, con la raccolta E' stato maggio entrò nella rosa per la poesia del premio Viareggio 1968. Usa il dialetto non come colore per i soliti temi da cartolina illustrata, ma come mezzo più schietto ed abbandonato di autobiografia sentimentale, di amore affetti e dolori interamente vissuti : con il coraggio, come scrisse Mario Stefanile, di confessarsi «senza difesa d'ipocrisie», il che per una donna è tanto più notevole nella poesia dialettale, sociologicamente e culturalmente assai più legata di quella in lingua a tradizioni e convenzioni comportamentali. Se tra la vecchia guardia abbiamo isolato questi nomi (e forse qualche altro poteva esser fatto) a indicarne caratteri e motivi predominanti, quasi il vuoto troviamo nella generazione di mezzo, di cui appena vogliamo ricordare Francesco Saverio Mollo e Salvatore Tolino. Il primo, quasi inedito, è significativo per l'innesto, come scrive il De Mura, di «un linguaggio non in linea con l'ortodossia del dialetto classicheggiante, e per la voluta intromissione della parlata del posto» (è nativo di Massalubrense. a cui ha dedicato il poemetto etnografico 'O paese mio pubblicato nel 1969). H secondo, commerciante di passamanerie a piazza Mercato, è fedelissimo invece alla tradizione classicheggiante ravvivata alquanto dallo schietto sentimento non contaminato da complicazioni e sofisticherie. E i giovani, o i quasi giovani? Il panorama si fa più anonimo e rado, a parte le ripetitive insulsaggini e sciatterie, da dilettanti della domenica e posteggiatori. La sensibilità e la problematica del presente sono troppo complesse e drammatiche per poter essere espresse nell'elementarietà del vernacolo; e chi era intellettualmente più aperto a un'acculturazione moderna, se per caso all'inizio aveva tentato il dialetto è subito passato alla poesia in lingua e di quella esperienza non serba più traccia neppure nella propria bibliografia (C. F. Colucci). Comunque due nomi possono essere fatti: quelli di Raffaele Pisani e Salvatore Palomba. Pisani si distingue per il decoro, la dignità, la schiettezza della vena, la laboriosità, la continuità di una tradizione (ha anche dato, per gratùito che possa essere oggi un lavoro del genere, un riassunto in versi dei Promessi sposi). Modernità Salvatore Palomba ha il merito di una voce più nuova che sembra additare la strada su cui, se ancora dovrà sopravvivere, potrà soltanto avviarsi la poesia napoletana: quella di dire «parole vere» (è il titolo del suo per ora unico libro), e le parole vere di oggi sono parole aspre nelle quali il mare non rispecchia più una «luna 'e cartapesta» ma nel suo celeste «ce sta nu dolore» e addirittura diventa «camposanto d'asfalto». Parole vere le quali ricordano alla città che « ò vintotto 'e settembre d"o quarantatre o populo napulitano cumbatteva l pe' cancella' cient'anv.e i 'e lazzarune e lazzarunate, francischiello e francischellate. vermicelle, taratitene, Pulìcenellae Culombina l ... pe' scrivere 'int'a storia finalmente quatto pagine tutte cu 'o stesso noni me: dignità». Anche il verso ha abolito la rima e la metrica e la musica (o la canzonetta) tradizionale. Probabilmente non è ancora poesia; ma e la strada su cui può e deve avviarsi la poesia dialettale e la stessa canzone napoletana se dovrà sopravvivere con una sua ragion d'essere e non come stanca ripetizione consumistica e involgarita di motivi usurati. Levati a maschera. Pulicinella: in questo senso e con questo titolo lo stesso Palomba insieme ad Ettore Lombardi per la parte musicale ha fornito i testi di alcune fortunate canzoni, al tempo già non più recentissimo della nouvelle vagiw. Ma l'esempio è rimasto, purtroppo, quasi senza séguito. Lanfranco Orsini e