Parigi-Berlino, due culture e tante incomprensioni

Parigi-Berlino, due culture e tante incomprensioni Dalla belle epoque a Hitler, nella mostra al Centro Pompidou Parigi-Berlino, due culture e tante incomprensioni PARIGI — La rassegna «Parigi - Berlino: 1900 1933». inaugurata il 12 luglio al centro Pompidou dove resterà aperta fino al 6 novembre, è senza dubbio l'avvenimento culturale della stagione. Nello scorcio di un terzo ' di secolo, dalla «Belle Epoque» all'avvento di Hitler, illustra un capitolo ìsseoziale della storia dei due «nemici ereditari» — sotto il profilo culturale, ma anche socio-politico, con le loro rivalità e influenze reciproche — attraverso numerose sezioni dedicate alle arti plastiche e al design, a libri e manoscriìii. alla fotografia e al manifesto, al teatro c all architettura. Questa mostra —che fa seguito a quella su «Parigi-New York» presentata nel 1977 e precede una «Parigi-Mosca» attesa per l'anno prossimo — sarà completata da una serie di concerti e proie■ zioni cinematografiche. L'accento posto sui rapporti e i contrasti fra le due culture giustifica pienamente l'iniziativa, nonostante l'argomento sia già stato sviscerato dalle manifestazioni organizzate a Berlino l'estate scorsa intorno alle «tendenze degli Anni Venti». Per i francesi, che, corazzati nel loro sciovinismo, hanno a lungo ignorato, occultato o denigrato l'apporto della cultura germanica, si tratta di far ammenda onorevole, proseguendo l'autocritica iniziata due armi or sono quando presentarono all'Orangerie la bella mostra sui romantici tedeschi. Cerchiamo ora di vedere, seauendo l'ordinamento cronologico e i riferimenti di questa rassegna, quali furono le affinità, i motivi di attrito e le interferenze fra le due eulture nell'arco di tempo considerato. Agli albori del secolo, in Francia, predomina una germanofobia, nata dalla sconfitta del 1870 e alimentata da un gruppo di intellettuali, che fanno capo a Maurice Barrès e a Paul Deroulède. Rinfocolati dalle campagne dell'«Action Francaise» sulla necessità di un protezionismo culturale — e a cui anche Gide e Proust furono sensibili —, questi sentimenti revanchisti prevalgono fino alla prima guerra mondiale e persistono dopo la vittoria del 1918. In Germania, invece, gli intellettuali sono in maggioranza francofili. Letterati come Stefan George. Hugo Von Hofmànnsthal o Rainer Maria Rilke conoscono perfettamente la cultura e l'idioma francese, e talvolta scrivono perfino in questa lingua. Le riviste letterarie é d'arte, da «Pan» a «Der Slurm», da «Kunst und Kunstler» a «Dos Kunstblatt», per citarne alcune seguono con attenzione gli avvenimenti parigini e si appellano di frequente a collaboratori del Paese vicino. Le opere francesi vengono abbondantemente divulgate ed egregiamente tradotte. Non c'è reciprocità nell'altro campo: salvo Romain Rolland, che è però da considerare più come un autore «europeo», pochi sono gli scrittori francesi germanofili, rare le traduzioni di prestigio — fatta eccezione per quelle di Nietzsche, di Henri Albert, che ebbero una notevole risonanza — scarso l'interesse della cronaca letteraria e artistica. Tipico è il caso di Apollinaire, che passa per uno dei critici d'arte moderna più illuminati (ma è una fama in parte usurpata): quando viveva in Germania, come giovane precettore, e collaborava con la «Revue Bianche» e «L'Européen», non dedicò mai se non qualche accenno sarcastico agli artisti tedeschi contemporanei, e persistè nel suo ostracismo fino alla morte, nel 1918. Eppure erano gli anni in cui fiorivano l'espressionismo, il «Blaue Reiter» e la «Brucke», contemporanea del movimento «fauve» (a cui i francesi si interessarono soltanto per affermare una loro supposta anteriorità: bisognerà attendere questa mostra per conoscere un po' meglio qui a Parigi Kirchner, o Nòlde, o Schmidt-Rottluff). Fra il 1908 e il 1910, Matisse, capofila dei «fauves». viene accolto con simpatia in Germania, dove mercanti e collezionisti privati si strappano le sue teie, prima ancora che la sua fama si sia affermata in Francia. Qualche anno dopo Robert Delaunay otterrà lo stesso successo a Berlino, dove si lega con Franz Marc. August Macke e Paul Klee. I francesi restano però insensibili alle ricerche proseguite oltre Reno: adottano soltanto qualche artista che. in un modo o nell'altro, cercano di annettere alY«Ecole de Paris», Max Ernst, per esempio, che a Parigi fa frequenti soggiorni dal 1913 e si stabilirà definitivamente nel 1922, o Paul Klee, in cui vedono — a torto — un seguace del surrealismo (ciò che gli vale una presentazione di Aragon e un poema di Eluard). Confinati sul terreno delle ricerche formali, istintivamente essi diffidano degli «eccessi», della carica drammatica dell'espressionismo tedesco. E si dimostrano altrettanto restii ad accogliere gli insegnamenti del «Deutscher Werkbund», poi del «Bauhaus», che gettarono le basi Der la rivoluzione funzio- i naie, mentre la Francia si attarda nella grazia frivola delP«Art Déco». Dada, movimento internazionale di rifiuto dei valori tradizionali, costituisce per una breve stagione un terreno d'incontro fra le avanguardie dei due Paesi. Ma il dadaismo tedesco, più ancorato alle realtà sociopolitiche contingenti, dirotterà verso la «Gebrauchlyrik» o poesia funzionale e, sul piano dell'espressione plastica, verso la «Neue Sachlichkeit» o «nuova oggettività», con la sua estetica-choc del brutto e dell'osceno in funzione di critica sociale. Frattanto il surrealismo, che in Francia succede a Dada, esalta la dimensione ludica ed onirica. Si è detto che la Germania è rimasta impermeabile al surrealismo, se si eccettua una volta di più Max EmsL integrato nélY«Ecole de Paris», tuttavia va riconosciuto il debito dei surrealisti nei confronti di molteplici influenze tedesche, dei romantici, da Novalis a Hoffmann, da Kleist a Von Arnim, di Nietzsche, o di Max Stirner. Il critico Gunther Metken, in un contributo al catalogo della mostra «Parigi-Berlino», sottolinea l'influenza decisiva, anche se poco nota, di un libro delio psichiatra Hans Prinzhorn, fenomenoìogo husserliano, il quale, trent'anni prima di Dubuffet aveva collezionato e analizzato le opere dei pazzi. Introdotto in Francia da Max ErnsL questo lavoro fu meditato da Breton. che ne trasse spunti per il «primo manifesto del surrealismo». Surrealismo e nuova Grisettivita ci conducono agli inizi degli Anni Trenta: Hitler è ormai alle porte. L'ultima sala dell'esposizione, dedicata alla storia di Berlino, documenta attraverso tele, disegni, manifesti, estratti della stampa borghese e operaia, le mutazioni politiche, sociali e culturali che si sono verificate dopo la prima guerra mondiale, attraverso la rivoluzione di novembre, la caduta del Kaiser, la repubblica di Weimar, la crisi economica galoppante, fino all'avvento del nazismo. La rassegna si chiude con il grande trittico della «partenza» di Max Beckmann e il bozzetto di Otto Di.x per «I sette peccati capitali». Siamo nel 1933. Quell'anno Dix sarà privato della cattedra all'accademia di Dresda e l'anno dopo verrà bollato come rappresentante dell'« a rtf^j^ì^. erata» e non potrà più esporre. Comincia l'esodo degli intellettuali e si apre per la cultura tedesca una luttuosa parentesi, che consente a Parigi di rafforzare e prolungare un po' artificialmente la sua egemonia in Europa. Elena Guicciardi