La poesia che scende in piazza per essere cantata alla gente

La poesia che scende in piazza per essere cantata alla gente Inchiesta sulla letteratura delle regioni italiane: la Sicilia La poesia che scende in piazza per essere cantata alla gente Continuiamo il viaggio nelle culture locali dei-nostro Paese. Dopo ì servizi di Claudio Magrìs (letteratura dialettale a Trieste e nella Venezia Giulia) e di Claudio Marabini (poesia dialettale in Emilia e Romagna) pubblichiamo un articolo di Fortunato Pasqualino sulla poesia dialettale in Sicilia. PALERMO — Quando nel 1975 venne assegnato a Eugenio Montale il premio Nobel per la letteratura, colui che più di tutti se ne risenti fu Ignazio Buttitta, il più noto e impetuoso tra i cantori della Sicilia di oggi (nato a Bagheria. nel 1899). L'avessero dato — il Nobel — a Biagio Marin. il grande poeta dialettale del Nord, se proprio si voleva darlo al Nord: ma destinarlo a quel Taie che altro non sa dirci se non «ciò che non siamo, ciò che non vogliamo», oggi che si ha da essere e da volere tutto, parve una «carognata borghese» di quelli che al posto della sanguigna, volgare eloquenza della terra, degli idiomi popolari e dei dialetti in cui si esprime la gente, continuano a proporre la via del non essere e del non volere d'una irrealtà stilisticamente raffinatissima quanto inconsistente. Più o meno quello che pensa Buttitta, declamatore incontenibile del proprio personaggio oltre che dei propri versi. Una piazza per ogni verso: un teatro od una chiesa sconsacrata per ogni incontro, «lapoesia di Buttitta — come ebbe ad osservare Carlo Levi — è fatta per l'espressione orale, per essere detta o cantata alla gente». Ma un po' tutta la poesia dialettale, e non solo siciliana, rivela la sua essenziale oralità, che le deriva dall'essersi svolta per lo più fuori del dominio della scrittura, sin dai cantori omerici, attraverso le grandi culture popolari. A leggerla, la poesia dialettale, è un po' sempre faticosa. A sentirla, invece, schiodata dalla scrittura e affidata alla viva voce dell'aedo, eccola colFarmonia della sua vera natura, e universalmente intesa come la musica, la danza e le arti visive. Di qui il fatto che, per esempio, Buttitta si senta compreso da russi, da giapponesi, da tedeschi, da inglesi, quando «recita»; e si lamenti di venire ridotto dalle traduzioni e dalle «letture», perfino quando il traduttore è — come è stato per il suo volume Lu pani si chiama pani (ed. Cultura Sociale, 1954) — Salvatore Quasimodo, premio Nobel, dal quale il nostro Ignazio avrà tratto la convinzione d'un legittimo diritto quasi ereditario al gran premio svedese. Con La peddi nova (ed. Feltrinelli, 1963) Buttitta impone alla poesia dialettale siciliana appunto una «pelle nuova», di passione sociale e politica. Dietro i macchioni di fichidindia, insieme con le nenie delle aie e dei carretti, compaiono figure e voci, dove si introducono amori consumati oltre lo stretto di Messina: Prévert. Eluard. Neruda. bazzicati da Buttitta per una pur legittima affinità di spirito e di stile. Chi però più di Buttitta fa sentire l'oltre Stretto e l'oltre Alpi è Salvatore Camilleri (del 1922. di Catania). Traduttore di Baudelaire, di Apollinaire, studioso di letteratura anglo-americana, spagnola, araba. Camilleri carica il verso dialettale siciliano d'una dose culturale' a volte eccessiva, sicché gli esplode tra le mani. E' come suonare con la zampogna del pastore un'opera di Wagner. Nell'esplosione degli elementi tuttavia si ha forse il capolavoro di Camilleri, l'orfico Sangu passa («Sangue pazzo»), stampatogli nel 1966 a Catania, da «Santo Cali Editore», il quale Santo Cali più che editore era poeta eccellentissimo e factotum della cultura dell'Isola, come un altro compianto amico di tutti e lirico ^ìoro^a finezza^ Mario Gori. del quale un giovane letterato di Caltanissetta, Bernardino Giuliana, va recitando di paese in paese il poeticissimo calvario, facendolo proprio. Tra la docta ignorantia di Buttitta e la cultura sfascia marranzani (sfascia cacciapensieri) di Camilleri, c'è Salvatore Di Pietro; per il suo aggressivo, dantesco, E' nuovamente giorno (ed. Rebellato, 1977) Buttitta gli ha scritto: «Turiddu, hai tu in mano non solo la terra ma il Cielo!». Nel «nuovo giorno» di questo autore una «manu di bamminu» (una mano di bambino) stringe l'infinito. Poeta di straordinaria vitalità. Di Pietro, ha avuto anche lui il suo Quasimodo presentatore in Giuseppe Villaroel, poeta in lingua, prefatore della Tuta di viìlutu (ed. Nuovo Cracas, Roma, 1963). l'opera principale del nostro cantore. Come altri poeti della Sicilia dell'Est, Di Pietro risente del presunto fatto che Palermo continui a battere Catania sul piano del potere e quindi su quello della politica culturale. editoriale, nonché delle valutazioni critiche in genere. La fortuna si chiama potere, anche nelle faccende squisite dell'anima, come la poesia. Di qui il luogo comune della Sicilia «sperta», scaltra. dell'Occidente, e di quella «babba», ingenua e sempre «vinta» dell'Etna, della verghiana Acitrezza, di Siracusa e di Messina; luogo comune che ha dettato a Di Pietro versacci polemici come questi: Lu suli nasci punì a hi Livanti, / ma poi ni Tarcu di la so fumata I s'infanga e mori ddà, lurdu di sangu». («Il sole nasce puro a Levante, / ma poi nell'arco della sua giornata / s'infanga e muore là (a Occidente), lordo di sangue». Se Garibaldi fosse sbarcato tra Siracusa e Acireale, lo avrebbero ributtato in mare, con le conseguenze di una storia diversa. Fuori della diatriba di Sicilia «sperta» e di Sicilia «babba». contemplativi e angosciati nel naufragio del quotidiano e dell'eterno, tra il ripiegamento intimistico e le visioni non sempre rassicuranti della natura, si agita nelLTsola tutto uno sciame di poetanti, ciascuno col proprio segreto segno di grandezza. Sono gli amanti del siciliano puro, convinti di continuare sulla scia di quei maestri deii'antica scuola che, secondo Dante, «fur già primi», all'origine della nostra lingua. In forza di questa ragione storica e ideale, i nuovi poeti ritengono di operare in una condizione di continua precedenza originaria rispetto ai precipitati linguistici e culturali del tempo, quasi che possedessero una specie di idioma oentecostale. ssoreante dalla propria identità etnica. I «puritani» non sono privi di fremiti indipendentistici. Gli anglo-americani non erano ancora sbarcati in Sicilia, nel '43. che già si parlava della necessità «storica» di tornare a esprimersi in dialetto, giusta la propria* tura e identità isolana. Nel 1946 usciva la rivista il Manifesto col programma del Trinacrismo: «Niente separatismi e niente fini politici — vi si leggeva —. Se il Felibrismo e il Catalismo si ispirarono ai poeti trovatori del XIII secolo, dei quali vollero riesumare la lingua... i Trinacristi si ispirano a una letteratura che sotto molti aspetti si può far derivare da Cielo d'A Icamo e da Jacopo da Lentini, e che è giunta a noi evolvendosi di secolo in secolo... Mentre in Provenza e in Catalogna non vi furono, dopo i trovatori, che isolati amatori e dilettanti di quella lingua artisticamente morta, in Sicilia, da Antonio Veneziano a Giovanni Meli, a Domenico Tempio, a Saro Platania, a Vito Mercadanle, a Vincenzo De Simone, a Vanni Pucci, a Nicolosi-Scandurra, ad Alessio Di Giovanni e infine ai Trinacristi. è tutta una fioritura di elevata validità artistica, sicché si può parlare di letteratura a parte». Trinacristi o no. i poeti siciliani germogliarono da ogni parte, emergendo da quella sorta di sottosuolo collettivo rimasto a lungo compresso per il divieto d'esprimersi imposto dall'unità d'Italia al fascismo. Vann'Antò. D'Agata. Molino. Ammannato. Gori. Cali. Saitta. Varvaro. Uccello. Petix. Tamburello. Baglio. Fatila. Conti. Nino-Pino. Cremona. Gagliano. Licata. Manna. Pisciotto. Mazzola. Messina. Pisano e aitri, taluni grandi quanto e forse più dei meglio noti, vecchi e giovani, vivi e non vivi, costituiscono la prorompente espressione del luogo, dell'ambiente, del «pugni; di crita» (pugno di creta) in cui l'uomo riattinge continuamente il connotato fondamentale del suo essere nel mondo. Accadeva che il dottissimo Erasmo da Rotterdam, dopo che si era espresso in greco, in latino, nelle lingue delle più grandi e sofisticate culture, si ritrovasse alla fine con le povere parole della parlata del luogo di origine. Non ci si meravigli se all'estero, per esempio in America, la lingua nazionale non arriva dove invece arrivano i dialetti, specialmente il napoletano e il siciliano, di cui l'italiano laggiù si direbbe una parti¬ colarità astratta. Così può spiegarsi perché a un intellettuale, come Emilio Morina. il più anziano dei poeti siciliani viventi, sia riuscito a New York, dovevive da oltre mezzo secolo, a continuare a esprimersi nel suo dialetto, mentre gli sarebbe stato difficile e innaturale proseguire con la lingua italiana. ià dove ne predomina un'altra. Morina è rimasto più di ogni altro ancorato alla pura tradizione, a quella che meglio offre, attraverso proverbi e «parità» (parabole) morali, una concezione del mondo. Le sue raccolte di proverbi versificati sono quanto di più significatilo un poeta possa comunicare in un dialetto come quello siciliano. Non per nulla l'annuncio della pubblicazione di una sua nuova (mera, un volume di distici, che probabilmente uscirà quest'anno, sia stato accolto con applausi da un cenacolo di poeti, sempre in Sicilia. Il titolo dell'opera è: Chiù dugnu I chiù sugnu. Significa «Quanto più io dono / tanto più io sono». E' il pensiero «L'Amore ottiene solo donando» di Lope de Vega. poi ripreso nei famosi versi di Coleridge «Noi. signora, riceviamo ciò che doniamo», bruciato poi dal nostro Gabriele d'Annunzio neil'esibizionistico «Io ho quel che ho donato». Nel distico di Morina l'idea del dare e dell'avere è superata. Col «donare» si entra nella sfera dell'essere: e ci si immette nella connotazione evangelica, dove ! infinitamente donante è l'essere nella pienezza dell'amore divino. Però, si badi che. come avverte subito dopo il proverbiarne: «Ni li còsi senza funnu. / o ce troppit o nenti ninna». («Nelle cose senza fondo / o c'è troppo o niente tondo»). Fortunato Pasqualino Come Ignazio Buttitta ha rivestito i versi di «pelle ' nuova», fatta di passione sociale e politica - Dalla cultura di Salvatore Camilleri all'aggressività polemica di Salvatore Di Pietro -1 «Trinacristi», discendenti da Cielo d'Alcamo e da Jacopo da Lentini Un poeta siciliano a New York: Emilio Morina