Bertoldo, l' eroe balordo

Bertoldo, l' eroe balordo Angherie e malizie nel «capolavoro» contadino di Giulio Cesare Croce Bertoldo, l' eroe balordo Giulio Cesare Croce LE SOTTILISSIME ASTUZIE DI BERTOLDO. LE PIACEVOLI E RIDICOLOSE SIMPLICITA' DI BERTOLDINO Einaudi, P.B.E. 235 pagine, 4800 lire /^IULIO Cesare Croce na\<_jsce — lo dice lui stesso nell'autobiografia in versi — alle porte di Bologna «in di di carnevale» del 1550 e durante il carnevale muore. 59 anni dopo. Vita grama e stenta, due mogli, quattordi- ci figli e la professione di cantore di piazza, autoreeditore di innumerevoli libri, libretti, opuscoli, fogli sempre nel segno del carnevale, che è il momento dello scoppio irrazionale, del trionfo della pazzia, del mondo alla rovescia, quando le folle analfabete si creano demenziali re e papi e governano per un giorno il mondo in un rituale tripudio di anarchie-rie «libertà» e lo travolgono e annegano nella sua compostezza, nella sua «normalitàdi ordine e di regole. Un lavorar senza sosta in canzoni. capitoli sonetti, sonettesse, dialoghi, testamenti, ragio- '^■>*W&?&&$ftfr '!rar'' a campare e approdare, senza saperlo e senza volerlo, al «capolavoro» (piccolo, come s'usa dire per giusta prudenza quando si tratta di oggetti popolarmente commestibili; e garantirsi fama e nome. E' l'approdo del Bertoldo. anzi de Le sottilissime astuzie di Bertoldo, cui tengono subito dietro Le piacevoli e ridicolose simplicità di Bertoldino. Non era facile fino a ieri leggere il Bertoldo. Ne aveva preparato un'edizione abbastanza attendibile Luigi Emery nel '51 per Le Monnier, ma si tratta di un libro non più. in commercio e dal punto di vista filologico ancora molto perfettibile. Ce ne offre adesso un'edizione impeccabile — nei limiti della documentazione posseduta — Piero Camporesi insieme con il suo diretto antenato, il Dialogus Salomonis et Marcolphi. nel testo latino e nel suo primo volgarizzamento a stampa. Anche per il Camporesi questo Bertoldo è un approdo. Egli vi giunge attraverso un mirabile aggirarsi (lì libro dei vagabondi. 1973, e La maschera di Bertoldo. 1976, sempre da Einaudi) nella gran selva di quella letteratura, o «sottoletteratura» se si vuole, nella quale agiscono su uno sfondo di miseria e di fame, di angherie e di trufferie, pitocchi, cerretani, imbroglioni, accattoni, buffoni vagabondi, zingari, orribile affascinante «corte dei miracoli», faccia stravolta, rutilante d'ombre e di squarci sanguigni, dell'aristocratico misurato Cinquecento. E' davvero l'«altra letteratura», che si offre poi anche nella popolare riesumazione del mondo della campagna senza arcadiche velature, nella sua millena¬ ria persistenza, che ha elaborato una cultura di opposizione, dai contatti sempre violenti di sopraffazione o di appropriazione indebita (la tradizionale distinzione tra popolare» e -popolaresco»; con quella «ufficiale». Il Bertoldo è il punto di arrivo e di mediazione, dove le virulenze del popolare sono incanalate e rappacificate, lasciando però intravedere la ricchezza di una tradizione sotterranea, stupefacente nella sua carica eversiva, nella sua forza di irrisione, che è il suo modo di resistere, di non scomparire, facendo del mondo una realtà capovolta, terragna, escrementizia: dove sia possibile mostrare il culo ai re senza che-i re riescano ad impiccarti, dove il loro orgoglio di potenti signori della Storia viene umiliato da un'altra coscienza del tempo, immersa nei millenni, immobile quasi nel volger delle stagioni, dove il raglio di un asino soffoca tutte le grida degli eroi e dei conquistatori: «Prima che fosti tu, ne manco la tua corte, l'asino aveva ragliato quattro mill'anni innanzi». Ma il Bertoldo non è solo l'affiorare alla luce di questi filoni sotterranei, dove la parola rozza e volgare è sempre segno di protesta e di rivalsa; non nasce a caso, a dispetto della letteratura «accettata», quella delle classi colte. Tutto il Cinquecento è li a testimoniarci, per poco che zappiamo un po' più a fondo e un po' più in là, la rottura di un equilibrio, l'alluvione dell'irrazionale, del gratuito, che chiedono diritto di cittadinanza, impongono la loro proposta di una diversa «salvezza». Non penso tanto a confluenze evidenti, come nei bifolchi del Ruzante, negli eroi del Folengo o nelle maschere della Commedia dell'Arte, ma al prolificare del motivo della bizzarria, della stravaganza, del gran terna della follia che percorre tutto il secolo, da Erasmo all'Ariosto, dalla Stultifera navis di Brandt al Capitolo sulla pazzia del Lasca, al mondo savio e pazzo del Doni... L'elogiabile folliadi Erasmo non è certo la balordaggine di Bertoldino, ma ad accomunarle è questo interpretare le cose «alla roversa», stravolgere la misura del giudizio, rappresentare la realtà come una metafora e accogliere la metafora alla lettera per lasciarla smontata e sconcia, giocattolo cui sono saltate tutte le molle. Il mondo è pur sempre un'astruseria e l'unica bussola per orientarsi è l'umor pazzo, la scorribanda allucinata, la scombinata astuzia, la semplicità originaria e grossa. La cultura del Cinquecento, che ha sollevato l'uomo-artefice alle soglie aV; divino e ne intuisce ora il gran tuffo all'ingiù. sembra smaniosa di incontrarsi anche con quest'altra cultura, die dichiara — è il proemio del Bertoldo — di non voler narrare «il giudicio di Paris, non il ratto di Elena, non l'incendio di Troia, non il passaggio di Enea... non le vittorie di Cesare, non la fortuna di Ottaviano», ma di scegliere i suoi eroi altrove, in «un villano brutto e mostruoso sì, ma accorto e astuto, e di sottilissimo ingegno». Ma non illudiamoci. Non si tratta di riscoprire il «popolare» e tanto meno di accettarlo, di fargli spazio e coro: la cultura degli emarginati deve continuare a vivere di vita grama, comunicando per grandi intricati canali, per imprevedibile oscuro diramarsi di radici. La fortuna di Bertoldo sta anche in quella qualità, di mediazione cui abbiamo accennato. La virulenza e pericolosità delle matrici a cui attinge appare a tratti («costui è un villano tristo escelerato — commenta re Alboino, che ha dato ordine di impiccarlo — che ha il diavolo nell'ampolla e un giorno sarebbe buono per rovinare il mio stato»/, ma essa è contenuta e ordinata a un lieto fine, in cui le cose devono restare come erano, le distanze rispettate e i posti occupati non subire alcuna minaccia. Marcolfo, il progenitore diretto di Bertoldo, nella sua contrapposizione a Salomone riesce ad evitare l'impiccagione in grazia della sua astuzia, ma poi la storia finisce lì e non vi è rappacificazione. Le ultime sue parole al re sono quelle finali di dileggio: «Hora, si non me voi veder in mezo deli ochii, vederne in mezo al culo». Non c'è ritrattazione e il trionfo resta suo. Anche Bertoldo, costretto dall'uscio appositamente abbassato ad inchinarsi ad Alboino, «in cambio di far riverenza al Re, gli voltò il podice e l'onorò con le natiche»; anche lui riesce ad evitare con l'astuzia l'impiccagione. Ma poi viene richiamato a corte, come altissimo eccezionale consigliere, e quando muore lascia un nobile commovente testamento, pieno di illuminati accettabilissimi consigli di equità e di giustizia per il re, ma anche di pacato rassegnato «buon senso» per il figlio, raccomandando «sopra il tutto ch'ei ci si contenti del suo stato, né brami di più». Gli artigli sono stati tagliati e trionfa la vecchia buona morale di lasciare le cose come sono, ognuno al suo posto, ognuno nel suo guscio. Stefano Jacomuzzi

Luoghi citati: Alboino, Bologna