Trieste: malìa e malora nel dialetto dei suoi poeti

Trieste: malìa e malora nel dialetto dei suoi poeti Inchiesta sulla letteratura delle regioni italiane: Trieste e la Venezia Giulia Trieste: malìa e malora nel dialetto dei suoi poeti r La poesia triestina diventa vera quando esprime il senso di una grandezza vissuta nel tramonto - Cadenze da Spoon River e incroci linguistico-razziali nei versi di Cergoly e Fòlkel L'esempio «irripetibile» di Biagio Marin, il grande vecchio di Grado. Dappertutto ci sono segni di reviviscenza, oltreché di resistenza, del dialetto. Le culture locali, in un Paese composito come l'Italia, sembrano ritrovare spazio dinanzi agli smarrimenti e alle inadempienze delia cultura ufficiale, unitaria. Cominciamo da questo numero con l'articolo di Claudio Magris, germanista e triestino, una inchiesta (quasi un viaggio di verifica) sulla letteratura delle regioni d'Italia: di quelle almeno in cui sia più viva e accertata la tradizione del dialetto. r~P RIESTE — Vi sono alcuni J_ sentimenti e valori — ha scritto Gian Luigi Beccaria nell'asciutta e splendida introduzione al suo volume Letteratura e dialetto — che 022Ì scmbrano irriducibili all'espressione nella lingua nazionale, a quel medio e ufficiale italiano di tutti che costituisce la base della letteratura corrente. La casa, gli affetti larici, l'amicizia, la felicità di una sera intorno a un tavolo fra volti fraterni, il vino nel bicchiere riluttano alla lingua canonizzata, che — quando li dice — li falsifica nell'ingannevole stereotipo dell'autentico e in una spontaneità posticcia, simile alle immagini della natura incorrotta propinate dall'industria alberghiera. Le figure della vita vera — che scorre cosi, semplicemente — balenano piuttosto nella poesia d'avanguardia, che frantuma l'armonia dell'idillio fittizio per ricordare agli uomini, con la dura voce della delusione non disponibile al compromesso, quella che dovrebbe essere la vera armonia dell'esistenza, offuscata daila barbarie e ancor più dalla vernice dell'universale-umano spalmata in fretta sulla barbarie. Fra la negazione che lascia trasparire la "verità solo svisandone i connotati ormai consunti e il belletto che vuole restaurarli artificiosamente, il dialetto può forse cogliere ancora un'istantanea non scomposta e non . edificante — del fluire della vita. Esso può intonarsi senza dissonanza e senza servilismo al ritmo delle opere e dei giorni finché resta una voce minore, travolta ma non integrata dalla storia; finché è la tenue e roca parola del minimo e dell'insignificante, del marginale e del rimosso. In realtà il dialetto è fragilissimo in tale sua funzione, diviene facilmente lo strumento della regressione pittoresca e del falso colore locale. Il dominio Il ruolo che Beccaria rivendi-, ca al dialetto sussiste finché esso nonNè entrato in alcun rapporto col linguaggio del dominio o vi si oppone in un contrasto elementare ancora ignaro del confronto dialettico e delle sue mediazioni. Quando s'inserisce, sia pure in termini antagonistici, nel meccanismo della mediazione, esso è già liquidato, è già fagocitato dalla logica del potere, che tutt'al più lo rinchiude in una riserva del folclore, in un'opportuna casella destinata alla diversità; esso si estenua, osservava Giorgio Bàrberi Squarotti. Ci si può chiedere se esistano ancora luoghi e momenti dell'esperienza non raggiunti e assimilati dalla dialettica ossia dalla reale imposizione dell'identico e se quindi sia possibile quella funzione poetica del dialetto di cui parlava Beccaria. 1 grandi poeti contemporanei che si servono del dialetto — da Noventa a Ciotti, da Zanzotto a Marin — sono infatti autori che riprendono c inventano, con raffinata consapevolezza culturale, un linguaggio tutto loro, alieno da ogni vernacolo viscerale e dal calore edipico insito nel folclore dialettale: un linguaggio che ha reciso il cordone ombelicale con l'eterna immediatezza infantile. L'universalità domestica propria alla grande poesia in dialetto del passato (da Goldoni a Nestroy) si è scissa: nei poeti di reale levatura sparisce l'aggettivo, nei rimatori di colore 'locale sparisce il sostantivo. Il fulmineo legame fra il rigagnolo dietro casa e la Via Lattea, di cui parlava Karl Kraus a proposito della poesia in dialetto viennese di Nestroy, si è spezzato nella loro inconciliabile opposizione. Può darsi, secondo un'ipotesi apocalittica cui non è il caso d'indulgere ma che questi recentissimianninon rendono del tutto improbabile, che la crisi della ratio gerarchica imposta a1 mondo — crisi in cui s'intrecciano liberazione e distruzione — ricrei, con i conflitti immediati e violenti e con i confronti senza mediazioni, quelle sacche di marginalità e diversità, di dialettalità culturale ed esistenziale capace di una sua specifica poesia. Nel territorio veneto, di cui Trieste e la Venezia Giulia costituiscono un lembo periferico — ormai esiguo e proseguito da qualche estrema propaggine in Istria, come dimostra ad esempio la notevolissima lirica rovignesedi Zanini (ed. Scheiwiller) — la situazione della letteratura dialettale è caratterizzata anzitutto dal fatto che il dialetto rappresenta la lingua dominante in tutti i settori, ceti e livelli. Il dialetto non è né una parlata popolare né un vezzo antiquario, bensì è il comune veicolo linguistico dell'esistenza quotidiana. Lo si usa, nella vita d'ogni giorno, per tutti gli argomenti: per parlare del pranzo e dell'eurocomunismo, di sport e di Thomas Mann. Tale sua vitalità è anche la sua debolezza, perché tende a togliergli una precisa fisionomia e a ridurlo a un calco dell'italiano medio: il dialetto triestino, di per sé. non ha un lessico e una sintassi sufficienti o atti a parlare delle Brigate rosse o dello strutturalismo e perciò, quando viene usato — come avviene — a questi fini, esso viene in realtà adulterato injun generico italiano triestinizzato (caduta delle vocali finali, scambio di condizionale e congiuntivo e cosi via). In tal senso il dialetto s'adegua a quel livellamento dell'italiano tante volte deprecato: scompaiono a poco a poco le parole di derivazione tedesca e anche slava — nonostante la crescente diffusione dello sloveno, specie nell'esercizio del piccolo commercio — e scompaiono progressivamente i termini legati a vecchi mestieri artigianali e in genere ai lavoro manuale. La poesia dialettale triestina (come documenta l'omonima antologia pubblicata di recente da Roberto Damiani e Claudio Grisancich. ed. «Italo Svevo») è povera ed ha povere ascender; • ze. è — fin dal secolo scorso — un riflesso locale della tradizione letteraria italiana che veniva recepita in ritardo. Non è. se non in rari casi, una poesia popolare bensì una poesia borghese di provincia e corrisponde a quella ch'era l'attardata cultura letteraria di Trieste prima che essa si trasformasse di colpo, agli inizi del secolo o qualche anno prima, nella grande letteratura triestina aperta alla più nuova civiltà europea. Virgilio Gioiti, che fa del triestino uno stupendo linguaggio poetico, non è il massimo rappresentante della poesia in dialetto bensì è la sua eccezione, anzi il suo contrario: esili usa il dialetto potenziandone l'autonomia dei suoi significanti, lo usa e lo inventa a fini lirici contro il linguaggio quotidiano. Per una maggior coerenza di questo straniamenlo. egli anzi badava a parlare in italiano e a scrivere in triestino. Alle radici L'autentica letteratura triestina in dialetto — né grettamente locale né assolutamente lirico come quello di Giotti nasce tardi, nasce quando la storia di Trieste è finita, o almeno quando lo stato d'animo di questa letteratura è permeato dalla convinzione che quella storia — la propria storia — sia finita. Si tratta di un dialetto che sembra trovare solo nel senso del tramonto la vitalità dell'amore e della coralità, quel legame primario che stringe il nostro corpo alla nostra terra e. attraverso di essa, a tutta la terra e alle sue radici. «Te ga ragion, qua chiudo una storia» dice il verso di una delle più recenti raccolte liriche in triestino. Monade. 33 poesie del giudeo di Fery Fòlkel (Guanda) e la stessa poesia continua, nel suo impasto italiano-triestino-tedesco: «Jawohl, mein Kapitiin. alles verloren I Alles, ganz alles? Forse rimane, I forse a noi ne resta il lessico triestino I la sua dolcezza-asprezza I E dopo, se anche questo bastione cade? I Ma ciò, papà mio vedo ebreo. I ne resta monade». Anche il più significativo degli attuali poeti in dialetto, l'anziano Carolus L. Cergoly, inventa un suo linguaggio mitico e sanguigno, epitaffio e insieme canto d'osteria, fulminea concentrazione degli incroci italosiavo-lede*ehi che unisce inesauribile amore della vita («Sedici volte I el mandorlo I Per mi I Sedici volte I in Carso xe fiorì») e scansione della decadenza, cifrata nella tragedia ebraica: «Arotte Pakits I Ebreo coi rizzi I Dei ghetto de Cracovia I Un misirizzi I Import-Export I Morto a Varsavia. I Suo fio Simon I Chirurgo a Vienna I Fatto baron I Per ordine del Kaiser ! Morto a Gorizia. I Paola sua fui I Cantante d'operetta I Fatta savon I Per ordine del Fuhrer I Morta a Mauthausen». La poesia di Cergolv. di cui già Jovce lo- C J G J dava la «tessitura muscolosa» e uscita ora da Guanda (Ponterosso) dopo varie edizioni semiclandestine che attrassero l'attenzione di Pasolini e Zanzotto (Passa el sol. 1970, // Portolano di Carolus. 1970, ed. Galleria dei Rettori: Inter Poetila. 1974. ed. Kirschmayer) è una sorta di «Spoon River» di Trieste. Un analogo carattere assumono i versi di Manlio Malabotta (Diese poesie sente de novembre e qualche altra, dopo. 1961. Piunzer fa bete le foie (gei dito 7 sàlise). 1969. Fiori de nailon 1971. ed. Scheiwiller) e le raccolte di versi (Serhidiòla. La Cittadella. 1964 ed. Scheiwiller. 1968) e di prose (la serie delle Maldobrìe) di Lino Carpinteri e Mariano Faraguna. Lo sfondo di Serhidiòla e delle Maldobrìe — racconti dialogati in cui un vecchio rievoca, con una saporosissima invenzione linguistica, il plurinazionale mondo absburgico. specialmente nel suo versante triestino-istriano-dalmata — è la koiné austroungarica, la memoria di quella grande e variegata unità ch'era stata l'impero. li dialetto appare la lingua naturale di quel mondo sovrannazionale ma familiare, corale e insieme individuale: è la lingua minore che narra senza fasti e senza dissacrazioni quell'impero del perduto, che lo smaschera con tenerezza e lo rimpiange senza idealizzarlo. Ma quel regno cui la letteratura in dialetto attinge è il regno del passato. della morte, di un'infanzia mai cresciuta o addirittura di un grembo prenatale: è dalla familiarità epica con questa morte che la letteratura estrae — specie con Cergoly — le sue parole libere dal peso reale e insieme concrete come cose, i suoi frammenti di vita quotidiana e sanguigna strappati all'oblìo. Le vitali linfe della letteratura in dialetto affondano nella morte e non fanno che parlare di questa morte, in una tautologia ossessiva — come fa la letteratura triestina in genere, che parla quasi solo di se stessa. oniePraj ìb3 trieste è. come Praga, un ossimoro vivente, la sua letteratura oscilla fra smania di fuggire e smania di tornare, fra l'impossibilità di sopportare la città e quella di farne a meno: è un solidale coro dei rimasti che la vituperano e dei transfughi^h^,la stagnano — entrambi costretti comunque a parlarne. Un autolesivo rapporto edipico spinge a ferire l'oggetto del proprio desiderio, impedendo così di staccarsene e vivendo il rifiuto come amore e l'amore come rifiuto. Trieste è stata un punto nevralgico della grandezza e della fine della Mitteleuropa. di una grandezza vissuta nella fine o meglio quaie fine: il suo declino è stato vissuto come una meravigliosa promessa irrealizzata, al cui inadempimento non ci si rassegna a credere e che non si può perdonare. Tranne pochi esempi di lirica in dialetto libera da quest'ossessione — ad esempio quella di Claudio Grisancich (Noi vegna- remo. 1965: Dona de pugnai. 1973) — il dialetto inclina di per sé alla regressione viscerale, a muoversi in un cerchio vizioso del sentimento tornando sempre al punì'.1 di partenza, a! gratificante e falso «calore di mucca» di un idillio ormai inesistente. «Parti, va. I te tornerà anca ti» dice in una lirica Anita Pittoni. conscia che questo «strighez.» (malia) è anche la «malora» della città. L'intensa, tenera e umoristica poesia in versi e in prosa di Carpinteri e Faraguna. nata quale verità delia nostalgia, ossia struggente e lucido ricordo del perduto, ha finito ad esempio per capovolgersi, tramite una serie di innumerevoli ripetizioni e di travisanti adattamenti teatrali, in una consolatoria istituzione culturale. La verità del dialetto e della poesia che fa tutt'uno col suo ìnconlondihile sapore — è la verità di ciò che è stato rimosso ed emarginato dall'ufficialità e dal potere deila storia: quando la voce dei vinti diventa un'eco o un accompagnamento di quello del dominio (sia pure del dominio in sessantaquattresimo. quello di un piccolo ceto di un piccolo mondo) essa si nega. La letteratura «minore» è vera, e può essere anche grande, quando smentisce le attese del consumo culturale, non quando le conferma. A Trieste quasi tutta la letteratura minore, non solo in dialetto ma anche in lingua, è una retroguardia ligia alle regole della società e della società letteraria, non un'espressione di diversità. Vi sono alcune eccezioni non integrate (per esempio Lina Galli) ma Trieste non è. sotto questo profilo, il Veneto: non c'è per esempio a Trieste l'equivalente di un Chiarelotto né c'è un grande poeta che. come Zanzotto. abbia saputo fare del dialetto il luogo di un inconscio non ancora scisso dall'istituzione linguistica eppur »ià percorso sino in fondo dal pensiero. A Trieste e non a Trieste, ossia a Grado, c'è Biagio Marin. il grande vecchio ottantasettenne che continua a creare a un tempo il suo mondo, la sua poesia e il suo linguaggio. Ma. a presqin d e re „d a N'ovvi a const a t azione c?ie i7grade.se medioevale e inventato di Marin è tutt'altra cosa del triestino, la poesia di Marin nasce da un rapporto radicalmente diverso con la parola, assolutamente non dialettale. Come il volto di Siddartha che. nel romanzo di Hesse. si trasforma — in un'incessante metamorfosi — in tutte le forme della vita pur restando sempre se stesso, così la poesia di Mann rinasce e si rinnova, fedele e diversa, col respiro della vita: è una poesia che si nutre del «muori e divieni» insegnato da Goethe e che è dunque agli antipodi del blocco infantile cui è. così spesso, votata la letteratura in dialetto. Claudio Magris