Dalla California un uomo nuovo per la Casa Bianca di Furio Colombo

Dalla California un uomo nuovo per la Casa Bianca Dalla California un uomo nuovo per la Casa Bianca Nixon non fa più notizia e le sue memorie si vendono male, ma «il genere letterario di Washington» è più che mai fiorente. Spunta tra gli altri un nuovo personaggio: Jerry Brown, governatore californiano. Scapolo, ex gesuita, su di lui sonò già state scritte tre biografie N JEW YORK — Se Washington è un «genere letterario», si tratta di un «genere» più che mai vivo e fertile. E' appena finita la stagione dei protagonisti del Watergate. ciascuno con il suo memoriale o la sua novellina sul potere e i suoi rischi, e già arrivano i libri su Watersate e su tutto lo strano periodo contrassegnato dal nome di Nixon. Nixon stesso figura fra gli autori, naturalmente. Ma a quanto pare non è sfuggito alla famosa legge del circo: se cadi una volta non riprovare. Nixon. che non è stato creduto come presidente e come uomo (ci vorrà molto tempo prima che il suo caso possa essere presentato in appello) ha fallito anche come scrittore. La grigia stesura delle sue memorie, a quanto pare ha finito per rendere irrilevante il ricordo di un periodo che — editorialmente — dovrebbe essere una miniera d'oro. Si dice che la felicità di Kissinger sia sconfinata. Nixon avrebbe potuto bruciare il terreno dei molti volumi intorno a cui l'ex segretario di Stato è al lavoro. Ma Nixon, che aveva perduto: da tempo la «vista politica», non è stato toccato dal miracolo nel suo sforzo di scrivere. Il suo lavoro non è una difesa, non è jun attacco e non è neppure un resoconto importante ai uno dei 'periodi più delicati della storia d'America. Gli esperti sostengono che il volume è candidato a un solo record: sarà la prima ,. volta che le memorie di un presidente «non vendono». E sarà la prima volta che — editorialmente parlando — un personaggio «cattivo» non fa notizia. Farà invece notizia, e forse più negli scaffali degli studiosi di scienze politiche che sul tavolo dei salotti, il volume dedicato al periodo politico di Richard Nixon scritto dal giornalista Tad Szulc, un uomo noto da molti anni per la qualità della sua scrittura, il vigore del suo stile di reporter, e la doppia e rara caratteristica di essere insieme tempestivo e accurato. Il libro, «The ilhtston of peace» (Viking Press. N. Y.). è una lunga, precisa, implacabile recensione della stagione politica segnata dai nomi di Nixon e di Kissinger. E' forse la prima volta che un non storico, passando per la via della cronaca piuttosto che per quella del metodo diplomatico e scientifico, riesce a dare significato, prospettiva, chiave di lettura a, una immensa catena di eventi, sotto e sopra la linea del noto e del conosciuto, creando una immagine complessiva che. nonostante la veste dimessa del reportage giornalistico, può essere messa accanto ad alcuni(li-; bri di Schlesinger. Szulc ha intensi e appassionati punti di vista su ogni argomento e su ogni fase della «presidenza imperiale» che studia. Ma è giornalista colto e reporter di rigorosa tradizione anglosassone. Quando inizia «l'editoriale» (o esposizione di un punto di vista) la narrazione si ferma, e la cronologia degli eventi non si sovrappone mai alla valutazione di essi. Qualcuno ha scritto che se Nixon avesse avuto a disposizione le bozze di Tad Szulc avrebbe commesso meno errori e ricordato più dettagli a proposito di se stesso. potere Non è una esagerazione. Questo libro ha due grandi pregi:, la cronologia completa e accurata è un piccolo capolavoro del «chi è chi» e anche del «dove, come, quando» di tutta l'epoca nixoniana. E il racchiudere l'immensa materia in «cicli» disegnati con un certo senso enico della storia cóntèVnporanea che una presidenza avventurosa e colma di eventi e di svolte, come quella di Nixon. può ben suggerire ad un osservatore partecipe e attento. A tutto questo materiale Tad Szulc sovrappone una 'chiave di lettura, quasi l'aspirazione a una interpretazione psicoanalitica della storia. Vede in Nixon (e in Kissinger) una «ossessione de! potere», «dell'uso fisico della forza», e vede questa ossessione non tanto negli episodi del conflitto vietnamita (che Nixon e Kissinger avevano ereditato), quanto nel modo di attaccare, reagire, «organizzare la difesa». E' un mondo diviso in amici e nemici, quello che l'autore de- scrive. Ma gli amici, per essere tali, devono identificarsi talmente con il protagonista da dare la sensazione di una sòìTtudine allarmante. Essi non hanno voce e non hanno immagine perché possono solo consentire. Tutti gli altri sono «7 nemici», una schiera minacciosa, che si estende dal «columnist» che vive a due isolati dalla Casa Bianca alla controparte vietnamita, dal leader politico straniero di «dubbia lealtà» al senatore americano che ha azzardato una critica, dall'intellettuale che protesta all'Armata Rossa. In questo allucinante ritratto. Nixon appare più incline di altri a «stipulare la pace locale» (certi clamorosi gesti di distensione verso l'Unione Sovietica e la Cina) perché ha troppi nemici e troppe altre guerre a cui dedicarsi. E sente il bisogno di non avere il fianco scoperto. La teoria dell'ossessione del nemico, e anzi del bisogno, cosciente o no. di creare nemici, è alla base di un altro libro da Washington che di recente ha creato non poco scandalo. Si tratta di «In search of enemies» (Ed. Norton. N. Y.) e rappresenta la terza dura sfida, in pochi anni, all'impegno del segreto assoluto degli «operatori» della Cia. Come Agee. come Frank Sneop. che lo hanno preceduto nello svelare ciò che avevano saputo nel corso del loro lavoro professionale, il nuovo autore, l'ex-agente John Stockwell, entra nel mondo editoriale (non senza convenienza, naturalmente, data la differenza fra l'anticipo dell'editore e la pensione di funzionario dello Staio) con una rivelazione sensazionale: gli americani sono stati presenti con attività segrete in Angola. Lo sono stati tanto da attrarre fatalmente l'arrivo dei Russi e dei Cubani, e lo hanno fatto sfidando ia proibizione del Congresso, e con la completa ignoranza de! Presidente (che era Ford, a quel, tempo). Questa l'opinione dell'autore. Stockwell ha in comune con gli ex-agenti che lo hanno preceduto una vera e propria passione letteraria che deve essere nata nel lungo lavoro di scri\ ere rapporti segreti, e deve essere esplosa nel noti poter più tollerare che il destino di quei rapporti fosse di restare segreti. Deve essere questo tipo di orgoglio che spinge l'agente segreto a diventare scrittore. Il fatto è che il superiore diretto di Stockwell a quel tempo (William Co!b\) non ha negato la sostanza del lungo e ben costruito racconto dell'ex-agente. riproponendo agli americani, cittadini e governo, un problema drammatico: come si fa, in un paese complesso e democratico, ad ottenere il controllo completo di tutti i suoi «corpi», senza indebolirne le capacità e gli strumenti? Ma la polemica suscitata dal libro-rivelazione di Stockwell è esplosa anche su un altro terreno. Chi ha avuto ragione: la politica del Congresso, che, fresco di ferite dopo la guerra in Indocina, ha vietato fondi e finanziamenti per qualsiasi operazione in Africa: o l'affermazione dei servizi segreti americani che erano «sicuri» dell'arrivo dei russi in Angola (e poi in Etiopia)? In Africa Stockweli dà. come ho détto, una terza risposta: i russi sono ' in Africa perché li ha «chiamati» l'attività, neppure tanto abile, della presenza segreta americana. In termini di polemica l'affermazione funziona, e ha scatenato valanghe di discussioni. Una più accurata e complessiva valutazione d'insieme suggerirebbe maaaior cautela nella conclusione di Stockwell. E' più da libro giallo che da trattato di politica internazionale l'idea che «agente chiama agente», e che sia stata la Cia. con la sua presenza, a invitare i russi. Basterebbe uno sguardo alla enormità delle forze (relativamente alla situazione africana) che i sovietici hanno schierato per rendersi conto che la risposta deve essere altrove. Ma Stockwell ha certamente fatto centro dove un libro deve fare centro: argomento nuovo, risela/ione assoluta, e tema polemico e controverso. F' già nella preziosa li.->ta dei «hesi sellers» ed è destinato a restarci. I! libro appena uscito su Jerry Brown (J. D. Lorenz. «The man on the whitc borse». «xI. Houghton - Mufiin Co.. Boston) governatore della California e ex aspirante, o forse futuro aspirante, alla Presidenza degli Stati Uniti, sembra venire da un altro mondo. E" un'America politica diversa (la California), un uomo diverso (lo scapolo ex gesuita che non vuole usare la machina blu e la residenza che spettano al governatore), e una prospettiva molto lontana dalle tensioni di Wa>hington. Ma l'uomo punta a Washington, e dunque la sua biografia (anzi ne sono uscite tre insieme, ma abbiamo scelto la più popolare) appartiene allo scaffale della letteratura su Washington. Chi è Jerry Brown. oltre ad essere il quarantenne governatore di uno dei più grandi e popolosi Stati d'America; 1'' unico personaggio che potrebbe sfidare Jimmy Carter; l'unico, oltre a Kennedy, che si aggiri, nella immaginazione popolare, con uno strano carisma che non si capisce come si sia meritato? Il libro non risponde direttamente a questa domanda, e non potrebbe. Quest'uomo aspro e solitario che ha successo con la folla, questo strano asceta che vuole il potere ma non lo «gode», questo insieme di coraggio e di conformismo, di innovazione e di conservatorismo, è una formula umana e politica che sfugge alla comprensione. Ma non sfugge alla ammirazione. 11 grande segreto di Jerry Brown — ce lo ricorda anche la biografia — è di avere rovescia- C to una relazione tradizionale fra espansione nell'uso dei mezzi di comunicazione ed espansione dei successo. Brown sembra lavorare con successo sulla valvola delle comunicazioni: la stringe, la chiude, crea il mistero. E la sua popolarità aumenta. Un recente sondaggio di opinione ha mostrato che in questo momento Edward Kennedy potrebbe, se volesse, sfidare con -successo Jimmy Carter. E' un fatto insolito, ma sappiamo tutti da quale alone di «public opinion» sia circondato il nome dei Kennedy. Lo stesso sondaggio ci dice che Jerry Brown. che si vede poco in televisione, fa poco «notizia» e raramente aggiunge il suo giudizio ai cori generali de! dibattito politico, ha lo stesso «indice di gradimento» dei presidente degli Stati Uniti. «Impossibile», rispondono gli esperti di opinione. Ma le cifre sono lì a dimostrarlo. Chi non lo ama. — come l'autore di «The man on the white horse» — parla volentieri delia sua «abilità gesuitica». O ricorda la sua frase famosa, che sembra il frammento di una barzelletta: «La vita è un mosaico». Ma altri gli credono, e preannunciano lunga vita: al personaggio politico e alle sue biografie. «L'uomo sul cava/lo bianco», suggerisce con ironia J. D. Lorenz, potrebbe essere l'eroe brechtiano di una America che viene dall'Ovest. Furio Colombo