L'atroce verità delle deportate contro i film di sesso e stivali

L'atroce verità delle deportate contro i film di sesso e stivali Testimonianze di donne sopravvissute al campo di Ravensbruck L'atroce verità delle deportate contro i film di sesso e stivali Lidia Beccaria Rolfi Anna Maria Bruzzone LE DONNE DI RAVENSBRUCK Einaudi, Torino 282 pagine, 4500 lire TRA Lidia Rolfi e il suo passato di deportata politica ci sono stati, in trent'anni. alcune rivisitazioni del Lager, frequenti incontri con le sopravvisute soprattutto francesi, testimonianze portate nelle scuole e nelle sale di conferenze davanti a platee selezionate, una fuggevole comparsa alla Rai-tv inserita nel coro di altre voci. Ma quel «muro» che si era levato tra lei e il mondo, quando al ritorno dall'inferno aveva misurato con sbigottito stupore l'incapacità dei vivi a comprendere, per dirla con Primo Levi. «la mala novella di quanto... è bastato animo all'uomo di fare dell'uomo», è caduto solo adesso, con il libro che raccoglie, insieme alla sua. le testimonianze di altre quattro superstiti dello sterminio di Ravensbruck. l'unico campo di concentramento per sole donne fra la mostruosa proliferazione del «sistema» nazista. La molla che ha fatto scattare in Lidia Rolfi l'imperiosa necessità di scrivere è complessa e articolata. Il suo libro ci pare anzitutto la risposta, sferzante, dolorosa e perentoria, alla banditesca operazione dei film porno-nazisti che in questi ultimi anni hanno rovesciato una ondata di putridume sulla più atroce esperienza umana di tutti i tempi. Agli individui senza scrupoli, che con l'occhio alla cassetta e al sicuro binomio pornografia-violenza hanno inquadrato nel mondo dell'orrore assoluto vicende di sesso e di stivali. Lidia Rolfi getta in faccia crudamente, con linguaggio scabro, duro e spigoloso, spogliato di retorica, spietato nell'autocritica, implacabile nell'accusa, l'allucinante realtà di Ravensbruck: prigioniere coperte di stracci, divorate dai pidocchi, piagate dall'avitaminosi, sfinite dalla dissenteria, dalla denutrizione, dalle botte, dai bestiali turni di lavoro, dalla mancanza di sonno: disumanizzate, sporche, lacere, sdentate. Schmùstuck. le chiamavano, pezzi di spazzatura. Altro che oggetti di desiderio. Ma il libro di Lidia è anche la rilettura attenta, politica — rie- ca dell'esperienza del «dopo» e resa possibile dalla distanza — del fenomeno Laser: fenomeno indagato nelle sue radici, inteso come proiezione di un'ideologia ."barbara e sopraffattrice: ma insieme specchio, con i suoi sottoproletari condannati allo sterminio, i suoi proletari schiavizzati, i suoi odiosi privilegiati, di una società feroce. E' soprattutto, questo libro, un contributo essenziale alla storia della donna, protagonista autonoma di scelte e di lotta. lucidamente consapevole, coraggiosamente determinata. Ed è infine, ci preme sottolinearlo, un inquietante campanello d'allarme: non a caso, credia- mo. l'opera vede la luce in tempi oscuri a cui si affacciano segnali sinistri, che sarebbe follia ignorare. La testimonianza di Lidia Rolfi — equivalente italiano, ma con più grinta, di «Les franqaises à Ravensbruck» — occupa oltre metà del volume ed è di gran lunga la più organica. Ma le voci delle sue compagne, tutte su registri diversi, hanno quella straordinaria ric-_ chezza che Anna Maria Bruzzone (non ex deportata, ma devota allo studio dell'universo concentrazionario). rileva nelle pagine introduttive. C'è Bianca Paganini Mori (unica sopravvissuta, con la so- iella, alla deportazione della famiglia) che ricorda soprattutto la solidarietà tra le donne di Ravensbruck e il bene profondo derivato dalla sofferenza comune. C'è la splendida, prorompente personalità di Livia Borsi Rossi, la popolana incontaminata, moglie di uno scaricatore di porto, deportata con lui e tornata sola. Madre di cinque figli (la maggiore delle femmine morta appena quindicenne m un combattimento tra partigiani e fascisti) Livia Borsi è una forza della natura. Non la piegano le frustate, il carcere, sii interrogatori: canta nel vagone piombato, sgobba dodici ore al aiorno nella fabbrica del campo: ma quando si accorge che il suo lavoro «serve» a prolungare la guerra, inventa il sabotaggio dei fogli di mica che le passano per le mani: e quando per punizione la mettono a pulire i cessi «lavoravo e cantavo — dice — poi alla sera piangevo». Canta anche con la grossa scopa da spazzino tra le mani: canta pelando patate e ruba in cucina per sfamare le compagne, come ha rubato, per loro, a Bolzano nelle camere delle SS. Soltanto il ritorno la spezza: al sapere che la figlia è morta, a ritrovarsi vedova con la famiglia sulle braccia, sola, scheletrita, ignorata e di nuovo a pulire latrine come lassù tra i tedeschi che odiava («E anche i fascisti li odio, perche sono loro, schifosi maledetti, clic ci hanno dato nelle mani dei tedeschi»). Ultima, la testimonianza a due. mite sommessa e tremenda delle sorelle Baroncini. Nella e Irma, partigiane della settima gap. padre, madre e la sorella maggiore assassinati in Lager. Al di là del dovere documentario viene da chiedersi a questo punto quale sia l'utilità di un ennesimo libro nel mare della letteratura concentrazionaria. dove i capolavori come Se questo è un nonio restano isolati e inimitabili. La risposta è ovvia: mancava, forse solo in Italia, un libro in prima persona che affrontasse la specificità della condizione femminile nel Lager. Ora lo abbiamo, e merita di essere letto e meditato per misurare quello che l'essere donne ha significato nella brutalità pianificala dei campi hitleriani: la nudità della madre anziana davanti alle figlie e agli aguzzini: l'aborto selvaggiamente imposto: il parto, e poi il figlio annegato o strangolato sotto gli occhi della madre: il corpo straziato da esperimenti criminali: l'uni.liazione della scarica diarroica incontenibile. E anche per misurare l'insulto, dopo l'inferno, di chi non vuole capire: lo spregio intollerabile «del sorrisino che fauno a sentire: partigiana combattente». Come se le donne, umiliate fino all'abiezione, non avessero credito, proprio perché donne, di aver deciso responsabilmente la loro strada. Gabriella Poli —r/--.-—-v-x^sr ;***•<••• f.»J .:-y»y* - S •8 o c e a = u liìÈP u ",- '-x<:*r , 1. ~.y^:>

Luoghi citati: Bolzano, Irma, Italia, Torino