Penso, dunque ho paura di Gianni Vattimo

Penso, dunque ho paura // dibattito su coraggio e viltà degli intellettuali Penso, dunque ho paura Adistanza di sei mesi dai «fatti», cioè dalle parole, lettere, articoli, dichiarazioni è diventato ancora piti chiaro che il coraggio e la viltà degli intellettuali italiani non c'entrano per niente: o almeno che sono stati solo la causa occasionale di un dibattito che fortunatamente, nei suoi sviluppi ultimi (documentati per esempio dalla discussione tra Sanguinea e Sciascia riportata verso la fine del voIuìtic). si è scoperto per quello che era. non una diatriba moralistica ma un dibattito politico, che coinvolge gli intellettuali come qualunque altro cittadino, letterato ono. E i migliori tra questi intendenti appaiono ora proprio quelli che hanno saputo vedere la questione in questi termini più generali, a cominciare dalle pagine di Alessandro Galante Garrone con cui si apre questa raccolta (a cura di Domenico Porzio. Coraggio e viltà degli intellettuali. Mondadori, pp. 212. L. 3000). In essa vengono riportati gli atti della polemica — dai toni accesi ma sempre sostanzialmente casalinga, tra addetti ai lavori che si conoscono tutti tra di loro — sviluppatasi tra la primavera e l'estate di quest'anno intorno al (falso) problema del coraggio e della viltà degli intellettuali Come si ricorderà, alcuni nostri maftres à penser. a cominciare da Montale, avevano pubblicamente dichiarato di comprendere e condividere l'atteggiamento dei giudici popolari del processo alle Brigate rosse i quali dopo l'assassinio dell'avvocato torinese Fulvio Croce, avevano «marcato visita», sottraendosi alle loro responsabilità e ai rischi concreti che vi apparivano connessi Gli intellettuali che sostenevano questa tesifoltre a Montale, anzitutto Sciascia) o quelli che insistevano sul diritto-dovere di essere pessimisti di fronte alla reale situazione delle nostre istituzioni (Bobbio), furono accusati da Amendola di mancanza di coraggio civile e di disfattismo: vizi che. secondo Amendola, gli intellettuali italiani avrebbero ampiamente dimostrato con le loro ambiguità nei confronti del fascismo. Fortunatamente la discussione si innalzò, nella sua ultima fase, a un piano meno moralistico e più politico. Come si vede dal contraddittorio Sanguineti-Sciascia. si scontrano qui non vizi e virtù, ma valutazioni politiche divergenti. Mentre Sanguinea (in ciò d'accordo con Amendola e il pei) insiste sull'importanza dell'occasione storica che si presenta oggi alla classe operaia organizzata di entrare nell'area del potere, un'occasione che non dev'essere perduta cedendo a tentazioni massimalistiche e •radicaleggianti», Sciascia, con buoni motivi trova che se le rinunce tattiche da accettare sono troppe, il gioco non vale la candela; se per entrare nell'area del potere la sinistra deve cominciare con l'assumere in proprio la difesa di queste istituzioni finirà per trovarsi utilizzata per la conservazione del regime di privilegio e di sfruttamento che queste istituzioni hanno finora mantenuto in vita. Non solo: Sciascia richiama anche al pericolo che il pei. entrando nell'area del potere, lasci l'opposizione di sinistra prilla di rappresentanza e di prospettive politiche, per cui quella sempre più si coagulerà su pure posizioni di l'iolenza disperata, il terrorismo. Come si vede, questi temi sono ancora drammaticamente di attualità, e sotto questo aspetto il libro messo insieme da Domenico Porzio ha un'indubbia utilità. Non vorremmo però che servisse a riaprire la polemica sugli intellettuali e sulle loro responsabilità come intellettuali. Piuttosto, per ciò che riguarda gli intellettuali, questo libro fornisce semmai una buona occasione per ridimensionare la vera portata di queste loro polemiche terne». Possibile che in Italia, dove si leggono pochissvni libri e giornali (almeno rispetto alle medie del mondo «avanzato») gli intellettuali abbiano tanto peso? Non sarà anche questo un segno del fatto che libri e giornali vengono sostanzialmente scritti e letti dalle stesse persone, e così gli addetti ai lavori possono scambiare le loro polemiche di famiglia per la storia universale? Di questo tipo, anche, sono le domande che pone Arbasino nel suo intervento-bilancio, il quale può essere letto come la migliore recensione di tutto il libro. Arbasino si chiede — in singolare sintonia con Aldo Tortorella — se gli intellettuali non dovrebbero prima di tutto contribuire al mantenimento dell'ordine democratico facendo il loro mestiere: producendo buoni libri facendo buone lezioni nelle scuole e nelle università, eccetera; magari anche (su questo insiste Tortorella) riesaminando criticamente i privilegi di cui, appunto come intellettuali godono in un Paese dove ogni lavoro manuale continua ad essere senti to come una condanna, e tutti aspirano a diventare vnpiegati di concetto. Certo anche questo richiamo, di tono lombardo-anglosassone, al fare bene il proprio mestiere nasconde limiti e rischi. Neanche Arbasino crede davvero che il mandato sociale degli intellettuali sia di produrre buone «opere dell'ingegno» (libri, film, quadri) è basta. O meglio: le opere dell'ingengo sono poi tanto buone quanto più non seirono semplicemente ad allargare il consenso per l'ordine costituito, ma lo mettono in crisi dando forma a desideri e angosce profonde che l'ordine esorcizza e rimuove. Anche facendo solo il loro mestiere, gli intellettuali sì trovano così costitutivamente impegnati in un compito critico e di disturbo. Si può decidere, in base a un giudizio politico, che la situazione attuale sia di estrema emergenza, e che in essa «parlare di alberi» — far poesia, fare •destrutturazione», critica, ecc. — sia un delitto, e che occorre invece mettersi disciplinatamente al servizio di una grande causa politica, Sia questa scelta, sia l'altra, che — in ciò siamo d'accordo con Arbasino — appare più sobria, più consapevole dei reali limiti del lavoro intellettuale, e rinuncia alle illusioni dell'intellettuale «maestro di vita» e guida socio-politica, richiedono una notevole dose di coraggio perché comportano grossi rischi; l'importante è assumerli consapevolmente, senza le fumisterie che questa polemica ha contribuito a documentare ma anche, fortunatamente, a diradare. Gianni Vattimo

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