Quel "Piano Marshall,, che piacque a Di Vittorio di Giovanni Spadolini

Quel "Piano Marshall,, che piacque a Di Vittorio Dibattito sul saggio Industria nel dopoguerra,, Quel "Piano Marshall,, che piacque a Di Vittorio QUALCHE settimana fa. all'università Bocconi di Milano (uno degli ultimi fortilizi del pluralismo universitario nel nostro paese, tutto accentrato anche nei difetti"), si è svolto un dibattito singolare che ha finito per investire la famosa «svolta» del maggio 1947, il ruolo e la responsabilità di De Gasperi — tema dominante deila polemica storiografica da un anno a questa parte. Ragione dell'incontro: il volume su «Sindacato industria e stato nel dopoguerra» che un'equipe dell'università di Genova, sotto la guida del prof. Filippo Peschiera, ha realizzato per la collezione «Quaderni di storia» dell'editore Le Monnier, col sottotitolo significativo e illuminante, «Storia delle relazioni industriali in Italia dal 1943 al 1948». Interlocutori della tavola rotonda: il presidente della Confindustria Carli, il segretario aggiunto della Cgil Marianetti (un sindacalista accorto e misurato, per intenderci uno di quelli che hanno preferito non firmare l'accordo governosindacati sulla riforma universitaria, carico" di riflessi e di condizionamenti corporativa ), l'autore di queste note. Carli ha puntato subito all'essenziale. Se una atripolarità», un rapporto organico governo - sindacati dei lavoratori-mondo industriale non nacque nei cinque anni considerati dal volume (che si riducono poi a tre di Italia liberata e unificata, 1945-1948), ciò è avvenuto essenzialmente per l'incapacità del movimento sindacale, e delle forze storiche della sinistra, di accettare la logica di un modello pluralista e occidentale di sviluppò economico. De Gasperi — ha aggiunto Carli — fu obbligato a sbarcare comunisti e socialisti dal governo, nella crisi che è stata al cen-' tro del recente libro di Scoppola e delle susseguenti polemiche, per evitare che l'Italia passasse di campo sul terreno economico, per assicurare la sua permanenza effettiva e operativa nella sfera occidentale, la sola compatibile con le regole di un'economia dinamica ed espansiva di mercato. Il contrasto sulla politica economica — quello che Andreotti ha tentato di sminuire nelle pagine della sua «Intervista su De Gasperi» — rimane, per il presidente della Confindustria e antico testimone di quelle giornate, da una posizione di distaccato osservatore liberale, determinante ed essenziale. La replica di Marianetti è stata cauta e circospetta, su questo terreno. Marianetti è un sindacalista troppo giovane per ricordare quel mondo e quegli uomini; la linea di Lama non consiglia mai di approfondire i contrasti. E poi, sulla copertina del volume di Peschiera, c'è una immagine, rarissima ma rivelatrice, tratta dagli archivi dell'immediato dopoguerra: 2 settembre 1946, quasi al centro di quel governo De Gasperi di «unità» con socialisti e comunisti costituito all'indomani del referendum istituzionale con la significativa presenza, per la prima volta in Italia del partito storico dell'op¬ posizione alla monarchia, il partito repubblicano. De Gasperi riceve nella prefettura di Milano i rappresentanti delia Camera del lavoro, dopo una manifestazione di protesta contro il rincaro del costo della vita. Campeggia, accanto al presidente della ricostruzione, Giuseppe Di Vittorio, il sindacalista che non si identificò mai nella chiusura, talvolta settaria e dogmatica, del pei, il par- ' tito nel quale pur militava. Nel corso della polemica (Carli aveva evocato il dissenso sul «piano Marshall»: un altro trentennale di questi giorni) non mi fu difficile ricordare la linea possibilista e anzi tendenzialmente favorevole assunta da Di Vittorio circa l'accoglimento delle proposte di aiuto americano: linea nettamente e severamente respinta dalla gerarchia togliattiana del pri. Certo non ebbi incertezze a ribadire quanto ho già scritto su La Stampa, nell'articolo del 15 giugno 1977: la rottura della collaborazione politica fra i tre grandi partiti di massa (il terzo, il socialista, già colpito e amputato dalla scissione) non determinò mài la rottura della collaborazione, o convivenza reciproca, per l'attuazione della carta costituzionale. I due piani, quello politico e quello costituzionale, furono tenuti nettamente distinti. E un minimo di agreement sopravvisse fra le forze che avevano lottato contro il nazifascismo: presupposto d'un dialogo che non si interromperà mai, neanche fra De Gasperi e Togliatti (pur nella intolleranza della « guerra fredda », che evitava perfino al secondo di salutare l'antico compagno di cordata — lo ricorda la figlia — se lo incontrava alla bouvette di Montecitorio). Si diminuisce la grandezza dei protagonisti, di De Gasperi ed anche di Togliatti, attenuando o scolorendo la portata delle questioni di fondo che li contrapposero in un duello politico, senza esclusione di colpi. E' lo scontro sulla politica estera, è lo scontro sulla politica economica, è lo scontro sugli stessi canoni di una democrazia rappresentativa che De Gasperi interpretava in senso occidentale, pluralista, magari con una punta di vecchia Europa, e Togliatti collocava nella visione di una democrazia « consociativa », se non voghamo addirittura parlare di una «democrazia popolare» (che è altra filosofìa, altra matrice culturale, altra esperienza politica). Pietro Scoppola ha risposto alle mie osservazioni e ai miei rilievi (sempre su La Stampa, 14 luglio) domandandomi se « Spadolini ha parlato più da storico o più da politico ». E aggiungendo: « Fa politica molto più chi difende le immagini del passato che non chi propone di ripensarle criticamente ». La risposta mi sarebbe facile. Ogni valutazione dell'ultimo trentennio, la faccia Scoppola o la faccia io, è insieme storica e politica. Non" esiste storia, delle forze e dei movimenti politici, particolarmente contemporanei, che non sia essenzialmente « storia politica ». Il punto discriminante è mi altro: evitare che le conclusioni dello storico siano strumentali all'azione, ' favoriscano o meno certe preferenze o certe opzioni dell'oggi. Collocando la scelta di De Gasperi, coi. suoi parattèri peculiari é irripetibili, nel suo tempo, nell'ambito delle forze allora operanti e delle soluzioni allora raggiunte, come un qualcosa di « unico » e di specifico, io mi sottraevo ad ogni tentazione di « politicizzare » o di « attualizzare » De Gasperi. Si può dire lo stesso dei miei contraddittori? Giovanni Spadolini

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