Mia madre Algazèlia

Mia madre Algazèlia Mia madre Algazèlia di Giuseppe Bonaviri FINITO \crso mezzanotte il cantare dei gufi da cui il paese era stato invaso dacché quasi timi i zebulonesi lo avevano abbandonato, volli andare da mia madre Algazèlia. — Oh. non sai. mi disse la Taluna, vecchia coi capelli bianchi, che è partita? — Partita? Alia sua età? — Sì. Ariete. Con lei ci sono dei maestri murari. Tèlefo l'inghiottitore di spade, tuo zio Michele. Ops sonatore di violino. Mnèmio il cieco e contadini e contadine. — Perché. Jaluna? — Nel nostro paese di Zebulònia non ci sono più fontane e loro sono andati alla ricerca delle acque di pozzi e torrenti. — Vieni, dissi al mio amico Sinus, psichiatra con cui ci trovavamo per un'inchiesta a Zebulònia. La casa di mia madre sì trova sul sagrato di Santa Maria. La trovammo abbandonata. Il portone, di noce color bruno, era chiuso, né io avevo la chiave lunga, di ferro, con anello terminale. Guardandolo, indicai a Mario Sinus. sotto le poche lampade ■notturne, l'architrave che con tre solette sporgeva sulla porta delimitata da un arco rotondeggiante distinto in bordi semiovali. Sotto questi, una intramatura a raggiera, in ferro battuto, dentro un semicerchio portava la sigla P.S. del primo proprietario, Patrizio Simili, poiché la casa materna non era quella, ma si trovava in cortile Baudanza, un vicolo dove il sole in spicchi portava la primavera. — Devi sapere, o Sinus — dicevo — che dipinta in chiaro con bande marrone, c'è una scala, dopo il portone, in tre rampe, nella cui prima rampa ai lati ci sono due vasi di terra cotta. In cima c'è una porticina di noce. L'amico mi ascoltava anche quando spiegai che la casa è costituita di nove vani, oltre al lungo balcone e due terrazzi piccoli interni da cui si può vedere la nascita delle nuvole. Sotto la balconata che aggira la casa, c'è un fico selvatico da cui mia madre in estate coglie frutti minimi ma dolci. Le mura pare siano * state costruite con massi del castello normanno, distrutto dal terremoto del 1695. Se qualcuno vi guarda con attenzione, o vi scava — sia dal lato di via Roma che dalla parte opposta dove una finestra e una porta finte, e una d'accesso ad uno stan-. zone pianoterra caratterizzano la facciata — vi intravede pomelli di spade, raffigurate chimere, frammenti di pergamena dove, in una, si può leggere ciò che è qui è là, ciò che è là è qui, ossia il tramonto è l'alba, e l'anima del singolo, per coglitura di sicomo- ri e per bontà, diventa l'Assoluto. — Oh. quanti elementi da studiare per il nostro lavoro, sospirò Mario Sinus. La taluna ci invitava a passare la notte a casa sua. L'orologio delia vicina chiesa suonò. Dodici battute, geometricamente >uonate che andando da tetto a tetto e, fuori Zebulònia. di dirupo in dirupo dicevano che la vita, seppure breve, è bella per i tanti aspetti di energia e pensiero che possiamo crearci. Degli orologi, spiegai all'amico Sinus su sua richiesta perché io ero triste non potendo vedere mia madre, Zebulònia ne è piena: ce ne sono sui campanili, con quadranti visibili a grande distanza su cui il giorno mescola le sue fiamme: se ne vedono sulle cantonate più alte, alcuni ormai senza lancette; ma i più frequenti sono quelli detti solari, a gnomone, che si possono intravedere, per le intemperie che li hanno consumati, in spuntoni di roccia, nelle colonne esterne delle chiese, sotto le grondaie delle case e tutti, in diversi gradi di potenza registrano non solo la luce della galassia Andromeda, o quella bianchissima di Giove ma le influenze astrali verificabili nel corpo di noi uomini che sottostiamo al y cielo. E' per questo che i vecchi zebulonesi sono asciutti, dal passo lento ma sicuro, vestono tuttora di tricot, portano berretto scuro, parlano poco. Con la loro camminata accentuano il moto pendolare delle braccia, mentre la colonna vertebrale è in asse. Né sotto altri aspetti si staccano le donne da questo modello, con in più la capacità d'accudire ad ogni cosa. Sono piccole, di corporatura armonica, come mia madre Algazèlia, nata il 6 marzo 1894, ultima di ventiquattro figli di cui ricordiamo qualcuno: Ciccio, Turi, Antonio, Santo. Giovanni. Cicciopino. Paolo. Ignazio, Pina, lana. Marannella, Rosilla. Arriga. Maruzza, Januzzu, Tinuzzu. Mario. Pape che poi è il nome di mia madre. Poiché mio nonno, mastro Turi Casaccio, era panettiere, mia madre, da bambina, in un cofano portava il pane nelle botteghe di Zebulònia, segnando con una tacca, o più tacche, su un baston- cino la quantità che depositava nelle botteghe. Portava il panuzzu di semola, i cucchi o gemelli, cioè due forme incastrate ira loro, le pagnotte, i pani di circa un chilo. Essendo fatto con grani duri, era particolarmente croccante, in colore d'oro, profumato, tanto che i "passeri, amatori di uomini e di tetti, la circondavano in quelle mattine per beccare molliche. C'erano una decina di panettieri allora nel mio paese, tra cui primeggiava mio nonno, per la grazia che dava alle forme di pane, per la scelta dei frumenti, sicché rappresentava un anello nel giro di pani, sete, drappi, cesti, crivelli che si producevano giornalmente. Non era difficile d'alfa parte, per l'attività panettiera svolta da ogni famiglia con adatti forni a legno d'ulivo, mandorlo e carrubo, vedere da una finestra all'altra passarsi, da donna a donna, il lievito, o crescente come era detto, come pure pagnotte. Queste certe volte si trovavano sui balconi, agli angolo delle strade, sui tetti * per soddisfare la fame dei merli che venivano dalle campagne. Mia madre è nata nel quartiere di Santa Agrippina, nella casa dei Barbera dove s'accendevano le lumiere ad olio, mentre in fuori si espandeva il manto stellato. Attorno ai venti anni, cucendo calze ad uncino e vendendo uova di una gallina, era riuscita a pagarsi il biglietto in una terza classe del vapore Madonna che. dopo una tempestosa traversata durante la quale affondò il vapore Patria, raggiunse le sorelle e i fratelli a New York, dove lavoro in una camiceria per quattro anni, tornando appena sua madre. Maria Palermo, morì nel 1923. Lei. come i zebulonesi. ha rapidità di intelletto, pronta a coordinare la parlata, fatta di sentenze, con l'anima vegetale delle parietarie, delle fave e delle mirre. E; buona cuoca facendo sughi gustosi, piccanti, pasta con melanzane, capottate, fave fresche in frittala d'uova, ricotte salate, dolci di latte, marmellate di fichidindia e melocotogne. — Oh, via, — si intromise la Jaluna. — Cosa vai raccontando al tuo amico? Quei tempi sono finiti. Ormai non si riesce nemmeno a ricavare l'olio, dato che gli ulivi decadono, sono bruciati, non vi cercano ricetto passeri e pernici. Per fortuna Dolcissimo — noirso se lo ricordi — ci ha sempre portato, prima che scomparisse all'improvviso forse per la sorte della faglia 'Alqama. erbe^ odorose dalla campagna. Così, mi son potuto fare un olio tratto dal basilico, dal timo e dall'amara ruta. Dolcissimo ha coltivato persino il cubebe, raro da noi, veramente, che cresce soltanto sulle rocce dure se vi spirano venti caldi. Sinus, incuriosito da questo personaggio, chiese alla mia compaesana se poteva farglielo conoscere. — Come vi ho detto, rispose, non si vede più. E' scomparso dacché la figlia 'Alqama non è più lei. — Chi è 'Alqama? — insistette Sinus. — Povera ragazza, lasciatela al suo destino. — Non si potrebbe conoscere? La faluna fece un gesto indefinibile tanto che dissuase lo psichiatra. Il quale, sentendo che la vecchia continuava a parlare di olii estraibili da zagara, limoni e zafferano, disse che gli aromi agresti non hanno forma né quiete poiché si diffondono, per la grande calura, sottili, clementi e passionevoli da piante ed erbe. (Questo brano è tratto da un romanzo al quale da diversi anni sta lavorando Giuseppe Bonaviri e che uscirà con Veditore Rizzoli verosimilmente nella prossima primavera forse col titolo Dolcissimo, nome di uno dei personaggi). il» j-*».Jf.\\ ■■ 4«i* « r — ; j-rrt - •

Persone citate: Arriga, Barbera, Casaccio, Ciccio, Giuseppe Bonaviri, Mario Sinus, Patrizio Simili, Veditore Rizzoli

Luoghi citati: New York, Palermo, Santa Maria