Dessì: dalla Sardegna una voce europea di Giovanni Raboni
Dessì: dalla Sardegna una voce europea Uno scrittore autentico da ricordare, un'opera da rileggere Dessì: dalla Sardegna una voce europea LA notizia della morte di Giuseppe Dessi si è diffusa la sera di mercoledì 6 luglio mentre nel ninfeo di Villa Giulia a Roma si stava procedendo allo spoglio dei voti del XXXI premio «Strega*. Anche Dessi, cinque anni fa, ■ aveva vinto lo «Strega» con un libro. «Paese d'ombre», che a molti era parso saldare con grande dignità i due estremi della sua ispirazione narrativa: il tormentoso fascino della memoria e il secco, ostinato assillo de! presente. A fare il nome di Proust per gli esordi narrativi di Dessi fu un lettore d'eccezione, Gianfranco Contini, che a proposito di «San Silvano» (1959) parlò di «interiore e lenta, ma non meno urgente ricerca del tempo perduto». Era un modo, fra l'altro, per alludere all'educazione toscano-europea di Dessi, nato nel 1909 in Sardegna (e alla Sardegna rimasto legato fino all'ultimo come a un nutrimento insostituibile), ma vissuto negli anni di studio e di apprendistato letterario tra Pisa, dove si laureò con Luigi Russo, e Firenze dove frequentò l'ambiente di « Soiaria », il più attento alla lezione dei grandi scrittori stranieri del Novecento e il più lontano dalla compiaciuta arretratezza autarchico-strapaesana che dominava altri settori della cultura d'allora. Poi, nel '42, uscì (nello * Specchio » di Mondadori, allora fruttuosamente aperto anche alla prosa) «Michele Bachino», che resta, a mio avviso, fra i più bei romanzi di quegli anni e nel quale comincia a farsi luce, accanto a! filone «proustiano», l'altro filone essenziale della narrativa di Dessi: l'attenzione, scarna e quasi feroce, al destino sociale dei personaggi, al significato esemplare del loro irripetibile essere nella storia. Si confermava, così, la figura di uno scrittore capace di conciliare una sottile vocazione lirica e analitica con un forte impatto oggettivo: uno scrittore che parecchi, forse un po' tardivamente, hanno cominciato ad amare sulle pagine di un libro come «Il disertore» (1961) e di quei «Racconti drammatici» (1959) che hanno testimoniato l'interesse di Dessi, a un certo punto della sua' storia, per le possibilità icastiche del linguaggio teatrale. (Dallo stesso interesse nacquero, negli stessi anni, an^he un dramma storico, «Eleono- ra d'Arborea», e un testo per la televisione, «La trincea»). La vittoria allo «Strega» era stata, in qualche modo, il congedo di Dessi dal mondo dei letterati e dal pubblico dei lettori. La malattia di cui soffriva, e che ne aveva già fatto un infermo, conobbe aggravamenti e complicazioni. Lo stile umano dello scrittore fece sì che il" suo graduale, malinconico declino non diventasse un caso pietoso. Adesso che è morto, credo che una cosa gli sia dovuta: rileggere i suoi libri, cominciando — se possibile — proprio dai primi, dai più remoti. Sarebbe un modo, oltretutto, per verificare la falsità o l'imprecisione di un certo numero di luoghi comuni sulla letteratura italiana di questo secolo. Giovanni Raboni
Persone citate: Dessi, Dessì, Gianfranco Contini, Luigi Russo, Proust, Villa Giulia
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