La fotografìa

La fotografìa TI TL / anteprima : A fondini La fotografìa Inventare stanca TT L testo che pubblichiamo in anteprima I è tratto dal terzo volume della « Storia della Tecnica». (Utet, Torino) diretta da Agostino Capocaccia, un'opera in parte già edita (voi. I, «Dalla Preistoria all'Anno Mille di Agostino Capocaccia e Alberto Mondini, e voi. II, « Dalla Rinascita dopo il Mille alla Fine del Rinascimento », di Umberto Forti); in parte in preparazione (voi. Ili, «Dal Seicento al Novecento », di Alberto Mondini, e voi. IV, dello stesso Autore, « L'Epoca Contemporanea). Scrivere storie della tecnica o della tecnologia o delle invenzioni è difficile; quasi sempre leggerle è faticoso, per la frammentarietà della materia, per le connessioni ch'essa presenta con la parallela storia della scienza, con cui talvolta la tecnica si confonde, nonché con le vicende della politica, con l'evolversi del costume e dell'economia. Le invenzioni nascono a volte per il lampo di genio di un inventore; ma più sovente compaiono, per essere venute a maturazione altre invenzioni o scoperte scientifiche, idee, tecnologie, motivazioni economiche. Chi legga questo capitolo, dedicato alla fotografia, trova un esempio di queste convergenze (la vecchia camera oscura, la disponibilità di lenti ottiche, la scoperta di sostanze — come i sali d'argento — sensibili alla luce, recenti progressi della chimica e della meccanica, dovuti alla Rivoluzione Industriale, l'ingenua speranza di affidare a una macchina quello ch'era giudicato compito dei pittori: il ritrarre il vero); e si avvedrà altresì che la stessa invenzione, una volta compiuta (quanto faticosamente, e ancora oggi di continuo perfezionata) ne rese possibili molte altre (per dire di due sole: il cinematografo, la televisione). Il fatto che a una invenzione vada associato sovente il nome dell'inventore è una semplificazione, perché gli inventori di un certo oggetto quasi sempre sono parecchi, così come si presenta frequente il paradosso che due o più persone inventino allo stesso momento la stessa cosa, con le conseguenti dispute di priorità. L'intrico di cause e di effetti nella crescita delle tecnologie, la circostanza che molte delle cose inventate subito o presto spariscono dalla scena, perché la tecnologia uccide le sue creature dovendo fare Dosto ad altre parimenti sue, rende, ha reso, difficile la stesura delle storie corrispondenti. Oltre a ciò il più delle volte gli uomini di penna ignorano o disdegnano la tecnica. Dal che nasce l'oscurità che avvolge la crescita di queste arti (soprattutto nell'antichità classica, prodiga invece dei racconti delle vicende politiche e delle guerre). I secoli dal Seicento al Novecento presentano un avanzamento grandioso nel progresso delle scienze; nel corso di questo intervallo fiorì la Rivoluzione Industriale; si ebbero stimolanti esempi che a una invenzione fortunata potevano andare congiunti favolosi arricchimenti; perciò vi fu, in quel periodo, un crescendo di invenzioni e inventori, con una fìtta e incrociata applicazione delle invenzioni medesime. Ad Alberto Mondini che ha affrontato la ricostruzione di vicende talmente intrecciate, lasciamo il discorso, con il capitolo ch'egli dedica alla fotografia. Didimo ~W T NA sera ventosa d'inverno del 1825 un 11 giovane poveramente vestito, dall'aria sofferente, e di cui tutto l'aspetto rivelava una miseria dignitosamente sopportata, entrava nel negozio d'ottica di Charles Chevalier. sul Quai de l'Horloge a Parigi. Dopo aver osservato con attenzione la merce esposta, il giovane chiese all'ottico il prezzo di una camera oscura, un modello nuovo in cui la lente ordinaria era stata sostituita da una a menisco convergente. Chevalier gli disse il prezzo, che doveva essere alto per la sua borsa, perché il giovane impallidì e non disse parola. L'ottico si trovò allora preso fra un sentimento di umana pietà e il suo abito mentale di commerciante: era ovvio che quel giovane non era il tipo di cliente cui si può impunemente far credito. V'era però una cosa che Chevalier poteva offrire gratis e senza rischio: un consiglio. E cominciò a chiedere al suo curioso cliente quale uso volesse fare della camera oscura. La risposta fu stupefacente: « Sono arrivato a fissate sulla carta l'immagine della camera oscura — disse il giovane — ma io non ho che un apparecchio rozzo, una cassetta di legno munita di un obiettivo da poco prezzo: la poggio sulla mia finestra, e dentro la camera oscura si raccoglie l'immagine di ciò che vi è all'esterno. Vorrei poter continuare i miei esperimenti con mezzi migliori ». Chevalier rimase stupefatto della risposta: egli sapeva che tanto Talbot in Inghilterra quanto Daguerre a Parigi cercavano da anni, con abbondanza di mezzi, di fissare l'immagine delia camera oscura su carta, e aveva raccolto alcune confidenze su quelle ricerche fino allora infruttuose. « Conosco alcuni illustri scienziati — disse — che si occupano di questa questione ma non sono pervenuti ancora ad alcun risultato. Sareste stato voi più fortunato? Permettetemi di dubitarne ». Per tutta risposta il giovane trasse dal suo portafogli consunto un foglio piegato in quattro, lo spiegò, e mostrò a Chevalier ciò che vi era ritratto. Era una fotografia su carta: si vedevano i tetti, gli abbaini, le mansarde, dominate dalla grande cupola degli Invalidi. 11 panorama che vedevano Mimi e Rodolfo dalla loro soffitta, fermato indelebilmente su carta. Chevalier non credeva ai suoi occhi. « E come avete potuto ottenerlo?» chiese. « Con questo liquido » rispose il giovane posando sul tavolo del negozio una fiala contenente un liquido scuro; e aggiunse: « In questo foglietto vi sono le istruzioni per usarlo. Provate, verrò a trovarvi ancora ». Chevalie lesse le istruzioni e provò; ma si intendeva tanto poco di fotografia che preparò le sue carte sensibili alla luce anziché al buio. E naturalmente non ottenne nulla. Attese invano il ritorno del giovane povero e ingegnoso: ma passarono i giorni, le settimane, venne restate, e poi un altro inverno. Il giovane non fu mai più visto. Chevalier rimase col rimorso di non averlo aiutato, e per togliersi quel peso raccontò questa storia nella sua Guide du photographe, che fu stampata a Parigi nel 1854. Niepce e Daguerre Quel poco liquido che era rimasto nella fiala fu dato da Chevalier a Louis Daguerre (1789-1851), ma nemmeno colui che passa per l'inventore della fotografia ottenne il risultato sperato. « Il segreto del vostro giovanotto non era nella fiala » disse dopo aver inutilmente provato. Daguerre, nato a Cormeilles nei dintorni di Parigi, era un artista che aveva qualche cognizione scientifica; si era dedicato prima alla pittura, poi aveva escogitato un modo di far quattrini mostrando sui boulevards il suo Diorama, un sistema di illuminazione che faceva apparire due immagini diverse sulla stessa tela, in tempi successivi, a seconda della direzione da cui provenivano i raggi (sistemi simili sono ancor oggi usati a scopi pubblicitari). Daguerre era molto interessato alla camera oscura: si chiama così un ambiente chiuso, la cui unica apertura è un foro, che può essere munito di lente: la luce forma, sulla parete opposta a- quella dove si trova il foro, un'immagine nitida di ciò che si trova all'esterno. L'invenzione della camera oscura è stata attribuita per molto tempo a Giovan Battista della Porta (1538-1615), che ne parla nella sua Magia Saniralis dandone una lunga e chiara descrizione: ma prima di lui se n'erano occupati Leonardo da Vinci (1452-1519) e Gerolamo Cardano (1501-1576). che fu il primo a suggerire l'applicazione di una lente al foro per migliorare l'immagine. La camera oscura fu usata molto dagli astronomi, e poi da disegnatori, che per riprodurre un soggetto si limitavano a tracciare le linee su una carta dove ne appariva l'immagine (...). Pare che i primi esperimenti con i sali d'argento siano stati compiuti in Inghilterra intorno al 1S00 da-Thomas Wedgvvood, quarto figlio del famoso ceramista Josiah Wedgvvood; non si sa se Wedgvvood fosse al corrente del fatto che il fisico tedesco Tohann Wilhelm Ritter (1776-1810). utilizzando il fenomeno, già ben noto, della scomposizione del cloruro d'argento per effetto della luce, stava scoprendo nel 1801 i raggi ultravioletti (invisibili all'occhio, ma capaci di far avvenire la reazione come i raggi visibili). Wedgvvood riuscì a impressionare i sali d'argento, e a ottenere immagini su carta: ma non era in grado di fissarle, e anche alla tenue luce delle candele le immagini si annerivano per poi scomparire. Il primo che riuscì ad ottenere dalla luce immagini permanenti fu Joseph Nicéphore Niepce (1765-1855); non adoprò i sali d'argento, ma bitume giudaico, una sostanza che diventa insolubile nel petrolio quando è lungamente esposta alla luce. Come supporto usava lastre di peltro, di rame o di vetro: il tempo di esposizione variava dalle due alle quattro ore. Daguerre incontrò Niepce nella bottega dell'ottico Chevalier: Daguerre era più giovane di vent'anni, e pensò che Niepce. avendo ottenuto dei risultati, avrebbe potuto essergli utile. Niepce era vecchio, stanco e senza soldi. Dopo vari scambi di lettere, dalle quali traspare molta cautela. Niepce e Daguerre divennero soci, e il contratto fu firmato a Chalon-sur-Saóne il 14 dicembre 1829. Daguerre si mise a lavorare col sistema del bitume giudaico, e intanto sperimentava. Un giorno gli capitò di lasciare un cucchiaio d'argento su una lastra che era stata trattata con dello jodio. Ed ebbe la sorpresa di trovare sulla lastra (metallica) il « ritratto » del cucchiaio. L'argento aveva formato con lo jodio una sostanza rivelatrice, Io ioduro d'argento; là dov'era stato il cucchiaio non era caduta la luce, che invece aveva disegnato tutt'imorno alla perfezione la sagoma elei cucchiaio. Tu un lampo rivelatore. Da quel momento Daguerre sostituì lo joduro d'argento al bitume giudaico, e i risultati migliorarono. Niepce non dette grande importanza alla scoperta, che Daguerre si era affrettato a comunicargli con una lettera del 21 maggio 1851. Gli rispose il 24 giugno, dicendo che aveva già tentato quella strada molto tempo prima, ma che ormai non sperava più di fissare, in maniera durevole, le immagini della camera oscura. Era ammalato e stanco; si spense il 5 luglio del 1833, a 69 anni, e Daguerre proseguì da solo. Il sistema di Daguerre era il seguente: preparava una lastra d'argento (o di rame), lucidandola accuratamente ed esponendola ai vapori di jodio. Si formava cosi lo joduro d'argento e la lastra diventava azzurra, ed era pronta per l'esposizione in camera oscura. E qui venne la grande scoperta di Daguerre: l'effetto dei vapori di mercurio. Questi riducevano il tempo di esposizione da tre-quattro ore a tre-quattro minuti; il loro effeuo era quello di rivelare prontamente l'immagine che si era formata sulla lastra. L'operazione si compiva in una scatola, dentro la quale si faceva evaporare il mercurio riscaldandolo con una lampada a spirito. 11 figlio di Nicéphore Niepce. lsidore. era socio di Daguerre al posto di suo padre, e Daguerre fu perfettamente leale e lo informò dei progressi fatti. lsidore andò a Parigi nel 1857. e non nascose la sua ammirazione per i risultati ottenuti da Daguerre. I due soci si misero allora a tentar di sfruttare economicamente la scoperta; ma non riuscirono a ricavar nulla sul mercato azionario. Decisero allora di rivolgersi al governo; per fortuna il fisico Arago si schierò dalla loro parte, e mise una buona parola con il ministro degli Interni, Duchatel. La storia non spiega cosa avesse a che fare il ministro degli Interni con la fotografia, a meno che non prevedesse già allora gli schedari della polizia. Daguerre chiese duecentomila franchi, il ministro lece una controfferta che consisteva nella rendita di duecentomila franchi, senza capitale. I due soci non avevano più una lira, e l'offerta fu accettata: Daguerre ebbe così una pensione annua di seimila franchi, e lsidore Niepce una pensione annua di quattromila franchi. In tal senso il ministro presentò alla Camera un progetto di legge il 15 giugno del 1839; la Camera nominò una commissione, di cui taceva parte Arago, e le cose non andarono certo per le lunghe, perché la legge fu presentata, e approvata per acclamazione, il 3 luglio, cioè in soli diciotto giorni dalla presentazione del progetto. Arago potè darne solenne comunicazione, il 10 agosto 1839, all'Accademia delle Scienze, cui si era unita per l'occasione l'Accademia delle Belle Arti. II processo, c questa era una delle condizioni poste a Daguerre per la pensione, veniva reso pubblico; tutti potevano utilizzarlo senza pagare. Del processo faceva parte anche il fissaggio dell'immagine a mezzo dell'iposolfito. I dagherrotipi ebbero ampia diffusione. (Per gentile concessione della lite:) Come è nata la fotografia? Le sue origini sono ancora misteriose, vaghe e sembrano appartenere, più che alla scienza, ad esercitazioni empiriche e casuali. Ma fu veramente così?

Luoghi citati: Inghilterra, Parigi, Torino