Emma Bovary è la mia lettrice

Emma Bovary è la mia lettrice // romanzo e il suo pubblico Emma Bovary è la mia lettrice 55 L ALTO costo dei libri nel Settecento rafforza l'importanza del fattore economico nel restringere il pubblico dei lettori... Charles Goldin scrisse sprezzante che "non vi è vecchia che possa permetterselo che non compri Robinson Crusoe"... Tom Jones ad esempio, costava più del salario medio settimanale di un bracciante... Ognuno, tranne i miserabili, aveva potuto permettersi di quando in quando il penny necessario per entrare al Globe (e ascoltare Shakespeare) che non costava più di un litro di birra. Il costo di un romanzo, al contrario, avrebbe nutrito una famiglia per una settimana o due...». Queste e numerose altre informazioni e osservazioni, contenute nel fondamentale studio di Jan Watt «Le origini del romanzo borghese», introducono bene il discorso sui lettori dei romanzi, spesso ingiustamente sacrificato a quello ritenuto più significativo sulla «teoria» del genere. Ma è naturale che un critico anglosassone parta con i piedi ben piantati al suolo e metta in prima fila questa problematica. Il libro che risale al 1956, solo ora è uscito da Bompiani nella traduzione di Luigi Del Grosso Destrieri (347 pagine, 8000 lire), rivelando un'insospettata vitalità e attualità. Se il recupero di Bachtin, sepolto nelle biblioteche sovietiche per quasi qua- rant'anni, mi è parso stimolante, non meno significativa mi appare questa riscoperta, non fosse altro che per porre l'accento su un argomento di studio desueto come i rapporti tra scrittori di romanzi e acquirenti. Non solo perché è utile sapere che «il romanzo fu largamente considerato Vesempio tipico del degradato modo di scrivere col quale gli editori corteggiavano bassamente il pubblico...» ma soprattutto perché una simile categoria di nozioni «pratiche» ci permette di recuperare il vero significato di quella profonda dialogicità che costituisce l'anima del romanzo secondo Bachtàn, appunto. Se è vero, infatti, che Richardson e Fielding si stupirono dello strano successo di Pamela o dei soldi offerti da un librario (il mediatore supremo, già allora, tra autore e pubblico) per il Joseph Andrews, ciò potè accadere perché i due «maestri» sapevano distanziarsi nella misura dell'autenticità dal gregge degli scrittori prezzolati che abitavano tutti nella famigerata Grub Street, pagati a pagina (e quest'essere pagati a. pagina, fu elemento decisivo per incoraggiare la prolissità anche di autori di primissimo piano) dagli editori. Che cosa significa distanziarsi nella misura dell'autenticità? Che i «maestri» scrivevano romanzi perché non solo rappresentavano ma appartenevano a quella middle class che affermava i principi dell'individualità, del transitorio, del mutamento, del divenire nella storia, a loro favore, naturalmente. Tanto che Watt può tranquillamente far notare che «la coscienza da contabile di Crusoe ha, invero, la supremazia sui suoi altri pensieri ed emozioni... La tenuta dei libri contabili è (infatti) uno degli aspetti di ' un tema centrale dell'ordine sociale moderno...». Di qui si può agevolmente fare un salto fino a Flaubert. Quando affermò: «Emma Bovary sono io» non solo voleva indicare la strada giusta per scoprire il punto di vista esatto con cui aveva scritto la sua «tragedia» borghese, ma voleva anche dire: «Emma Bovary è tutte le mie lettrici...». Per la medesima ragione Moravia scrive in prima persona (pensiamo alla Ciociara, per esempio, e poi ai racconti di donne, a tutti i racconti romani, ecc. ecc.). Autore-personaggi-pubblico costituiscono nel genere romanzo una sola persona o, meglio, intrecciano tra loro un rapporto di profondissima conoscenza, che nelle forme più degradate raggiunge i territori della prostituzio¬ ne letteraria: che è comunque, sempre, preferibile al silenzio o alla mancanza di qualunque tipo di rapporti. In questo contesto reale mi pare velleitario proporre, come invece una certa parte della società letteraria continua a fare «veti» o «anatemi» di fronte al successo di un romanzo, perché agendo in tal modo si finisce con l'avallare opere che nulla hanno a che fare con il genere romanzesco, non fosse che per una sola, elementare ragione: non hanno pubblico. La discussione sui valori si dovrebbe aprire tra le opere che invece un pubblico ce l'hanno e prima si dovrebbero fare, nelle recensioni, vere e proprie scommesse sul successo o sull'insuccesso cui si pensa un romanzo sia votato, indicandone le ragioni. Se certe «femministe» contestano le donne di Moravia e Moravia, al con tra rio, accresce il numero delle sue lettrici, non sarebbe bello e istruttivo cercare di spiegarselo? O la risposta ci viene dalla crisi del movimento, dalla sua caduta nell'irrealtà? Antonio Porta